SPAZIO: ULTIMA FRONTIERA

QUESTI SONO I VIAGGI DI COME L’UOMO ABBIA VISTO IL SUO FUTURO E NE SIA RIAMASTO ABBAGLIATO

di Claudio Chillemi

 

Quando, nel lontanissimo XVI secolo, il nostro Ludovico Ariosto, fece salire il suo personaggio Astolfo sull’Ippogrifo per raggiungere la Luna e riacquistare il senno di Orlando, si apriva nell’era moderna l’idea che lo spazio era un luogo esplorabile. In effetti, almeno altri due viaggiatori spaziali degni di nota appaiono nella storia dell’umanità, Icaro (che volò troppo vicino al sole) e Dante (che raggiunge il paradiso e l’empireo nell’alto dei cieli); ma quello di Astolfo è, viceversa, un viaggio laico, ed ha un imprinting assolutamente avventuroso, anche senza trascurare il simbolismo derivante dall’andare a cercare il senno proprio sulla Luna che ci rende appunto lunatici e quindi privi di senno.

Il passaggio, forse azzardato (ma non stiamo parlando di fantascienza?) è che il successivo viaggio verso il nostro satellite lo troviamo più di trecento anni dopo, con Jules Verne che con il suo Dalla Terra alla Luna che è del 1865, ci invita nuovamente all’esplorazione dello spazio, iniziando dall’astro che appare il più vicino a noi. In questi tre secoli, Galileo ha scoperto i satelliti di Giove, i crateri della Luna, e Newton la legge di gravitazione universale. La scienza ha avuto un balzo in avanti mostruoso che ha portato all’idea stessa che questo viaggio oltre l’atmosfera sia auspicabile. Verne, in effetti, lo immagina a bordo di un razzo, così come sarà effettuato nel 1969; e lo immagina all’interno di una spinta formidabile derivante da una esplosione, che serva a vincere la forza di gravità.

Il terzo passo lo compie H.G.Wells. Lo scrittore inglese, non solo afferma che lo spazio è popolato da altre civiltà, ma che si può viaggiare tra i pianeti, nel suo La Guerra dei Mondi del 1897. Il passo compiuto da Wells è fondamentale, perché egli immagina che chiunque viaggi tra le stelle abbia una tecnologia tale da essere superiore all’essere umano (preoccupante sillogismo che di recente ha ribadito S.Hawking, in quale ha detto senza mezzi termini gli alieni esistono e sono pericolosi). Molte sono le scoperte astronomiche dell’Ottocento che hanno ispirato Wells, iniziando dall’individuazione di Nettuno ad opera di J.G.Galle nel 1846.  

Lo spazio quindi è pieno di pianeti (ad oggi sono oltre 5000 gli esopianeti, vale a dire i corpi celesti fuori dal nostro sistema solare di cui si è certi dell’esistenza), e la scienza, quindi sorregge la fantascienza in un connubio indissolubile.

Ecco perché nelle prime tre decadi del XX secolo, la produzione letteraria di fantascienza è piena di mondi straordinari, di alieni inverosimili, e di eroi spaziali umani che ricercano, trovano e spesso combattono altre civiltà. Il paradosso però sta nel fatto che gli scrittori che portano avanti questo progetto, non sono più europei, ma americani. E’ vero che da Gensbarck al giovanissimo Asimov, si tratta di esuli del vecchio continente; ma fatto sta che lo spazio diventa prerogativa degli Stati Uniti e delle loro stupende e coloratissime riviste chiamate pulp!

In effetti, gli americani hanno dimestichezza con il concetto di frontiera e degli sforzi atti a superarla. Gli USA nascono dalla conquista palmo a palmo della terra, a scapito degli indiani d’America. Arrivati all’Oceano Pacifico, la frontiera svanisce. Ecco perché, nel 1966, quando Gene Roddenbery, mette nero su bianco il suo Star Trek utilizza la formula di SPAZIO: ULTIMA FRONTIERA, perché lo spazio è una frontiera senza fine, ed è l’ultima che l’uomo può superare.

Star Trek, che nasce in piena corsa alla conquista della Luna, deve quindi moltissimo alla “vecchia” Space Opera dei primi decenni del Novecento. Quella dove si parlava di intrepide astronavi che solcavano galassie lontane alla ricerca di mondi abitabili. Quelle magnificamente illustrate non solo sulle riviste, ma sui fumetti di Flash Gordon o di Buck Rogers. Roddenbery, infatti lo concepisce come il viaggio di una carovana, alla ricerca di una nuova frontiera da superare. Kirk è il più classico dei pistoleri, McCoy (il medico) è un vecchio gentiluomo del sud e poi c’è Spock, l’essere logico e razionale che dà il suo punto di vista alieno ai pazzi comportamenti degli esseri umani. E già, perché, al contrario della prima parte del secolo, dove la fantascienza letteraria, fumettistica e cinematografica, aveva descritto l’alieno come lo straniero (alien in USA è lo straniero non regolare, straniero poi ha il significato di barbaro, barbaro per i romani è appunto lo straniero, un gioco di parole infinto su cui infinitamente si può speculare), che quindi portava negatività e distruzione. Star Trek, invece, in pieni anni Sessanta, dove si consuma la lotta per diritti civili, impregna il concetto di frontiera (va, distruggi l’alieno e impossessati della sua terra in quanto lui è brutto, sporco e cattivo), con quello di infinite diversità in infinite combinazioni, tutte ugualmente da rispettare.

Il viaggio è finito, l’uomo ha trovato nello spazio se stesso imbattendosi nell’alieno, dal viaggio rinascimentale di Astolfo, dove la Terra era al centro di tutto, si arriva a quello di Star Trek, dove la Terra è il pulviscolo atmosferico di una immensa galassia.

Come, a questo punto, non citare uno dei racconti più significativi di questa rivoluzione copernicana, la Sentinella di F. Brown del 1954:

Era bagnato fradicio e coperto di fango e aveva fame freddo ed era lontano 50mila anni-luce da casa. Un sole straniero dava una gelida luce azzurra e la gravità doppia di quella cui era abituato, faceva d'ogni movimento un'agonia di fatica. Ma dopo decine di migliaia d'anni, quest'angolo di  guerra  non  era  cambiato.  Era comodo per quelli  dell'aviazione, con le loro astronavi tirate a lucido e le loro superarmi; ma quando si  arriva al dunque, tocca ancora al soldato di terra, alla fanteria, prendere la posizione e  tenerla, col sangue, palmo a palmo. Come questo fottuto pianeta di una stella mai sentita nominare finché non ce lo avevano mandato. E adesso era suolo sacro perché c'era arrivato anche il nemico.

[…]

Il nemico, l'unica altra razza intelligente della galassia... crudeli schifosi, ripugnanti mostri. Stava all'erta, il fucile pronto.

Lontano 50mila anni-luce dalla patria, a combattere su un mondo straniero e a chiedersi se ce l'avrebbe mai fatta a riportare a casa la pelle.  E allora vide uno di loro strisciare verso di lui. Prese la mira e fece fuoco. Il nemico emise quel verso strano, agghiacciante, che tuttiloro facevano, poi non si mosse più.  Il verso, la vista del cadavere lo fecero rabbrividire. Molti, col passare del tempo, s'erano abituati, non ci facevano più caso; ma lui no. Erano creature troppo schifose, con solo due braccia e due gambe, quella pelle d'un bianco nauseante e senza squame...”

Il nemico ora è l’uomo.

 

 

Una Generazione di Eroi

Di Claudio Chillemi

Fin dalle sue origini, la Fantascienza ha avuto nel fumetto uno dei generi espressivi privilegiati. In effetti, se si vuole tracciare una storia del fumetto e della fantascienza, gli intrecci sono parecchi, e i parallelismi frequenti. Iniziando dai notissimi Buck Roger e Flash Gordon, che poi hanno avuto una straordinaria fortuna anche al cinema e alla televisione.

Il primo nato da una serie di romanzi di  Philip Francis Nowlan, avrà la sua maggior fortuna con una striscia a fumetti quotidiana a cavallo tra gli anni venti e trenta. Buck, uomo del ventesimo secolo, si risveglierà dopo 500 anni di ibernazione, in un futuro pieno di meraviglie dove finirà per integrarsi quasi alla perfezione.

Suo compagno di avventure fumettistiche è Flash Gordon nato dalla fantasia di  Alex Raymond. In realtà Flash, al contrario di Buck Rogers, nasce come nuvola parlante e poi si evolverà in altre forme espressive (come detto dal cinema alla televisione, ma anche alla radio). Anche Flash è trasportato dalla sua realtà, ad un’altra, un pianeta alieno che sembra minacciare la terra.

Buck e Flash, dunque, sono esseri estranei inseriti per forza o per necessità, in una realtà diversa, immaginaria, completamente lontana da quella a cui sono abituati. Che è poi uno dei topoi più importanti della Fantascienza, che si avvale spesso dell’espediente narrativo del diverso inserito in un contesto perturbante.

Vera rivoluzione copernicana, in seno alla fumettistica di fantascienza, è la nascita, di Superman, pubblicato nel 1938. Al contrario dei suoi predecessori, Superman non è un essere normale in un mondo immaginario, ma un essere immaginario in un mondo normale. Non si tratta, ovviamente, di una novità assoluta; anche come supereroe Superman ha diversi predecessori; ma mai nessuno ha avuto un impatto così determinante nel mondo nel fumetto, e della fantascienza a fumetti.

Nato dalla fantasia di Jerry Siegel e Joe Shuster, sulle origini di Superman si sono spesi litri d’inchiostro; soprattutto sulla questione del superomismo  nietzscheano sbandierato dal regime nazista proprio negli anni in cui il nostro nasceva e dava inizio alla sua fortuna. In realtà, se le due cose si vogliono collegare (e pare impossibile non farlo), Superman incarna    sicuramente di più l’ideale di superomismo di matrice emersoniana, di quel E.W.Emerson (filosofo e studioso americano) che predicava l’ideale paternalistica di un uomo superiore che mette le sue qualità a servizio della collettività.

Nato un paio di anni dopo per mano di Bob Kane e Bill Finger, Batman è l’antitesi di Superman. Tanto oscuro e lunare il primo, quanto solare e luminoso il secondo. Batman non ha superpoteri, si affida alla tecnologia. Una sorta di supereroe positivista che vede nella inventiva umana la capacità di scacciare il male e affermare la giustizia sociale. Ma anche qui, come in Superman, si nota la matrice paternalistica: l’uomo normale ha bisogno dell’eroe per aspirare ad una società più giusta, non esiste spazio per una redenzione personale dell’individuo.

E’ singolare come alla vigilia della più sanguinosa guerra che la razza umana abbia mai combattuto la fantascienza a fumetti si interroghi sulla qualità dell’EROISMO. Come è altresì singolare che, nella stesso tempo, la fantascienza letteraria, invece, si trovi su altri mondi o in altre era, per solcare le profondità dello spazio. Possibile che nessuno si accorga che il mondo si trovi sull’orlo dell’abisso? Oppure, molto più semplicemente, il fumetto e il poket di Science Fiction devono distrarre il lettore da una realtà ingombrante? Verrebbe da rispondere un po’ l’uno, un po’ l’altro. In effetti, Superman e Batman rappresentano due risposte nette e chiare (e soprattutto legate al sogno americano) alla propaganda hitleriana sulla superiorità della razza ariana;  ma la guerra? Chi pensava, sul finire degli anni Trenta che gli USA sarebbero stati coinvolti in una guerra? Anzi, molte famiglie della ricca borghesia americana, dai Rockfeller ai Kennedy, in più occasioni, avevano espresso ammirazione per Hitler e Mussolini. Ma, quando nel 1941, con Pearl Harbor, gli USA entrarono in guerra, si dovette creare una nuova forma di Supereroe ad hoc, Capitan America.

Il personaggio nasce dalla mente di J.Kirby, come elemento di propaganda durante la seconda guerra mondiale, dove rappresentava un'America libera e democratica che si opponeva ad un'Europa imperialista e bellicosa, ed ebbe un grande successo di pubblico; tuttavia con la fine del conflitto perse la sua popolarità, nonostante un (vano) tentativo di riciclarlo come cacciatore di comunisti durante i primi anni della guerra fredda.

Capitan America si impone come elemento di passaggio tra il fumetto di fantascienza e il suo sottogenere più famoso e diffuso, il fumetto supereroistico. In effetti, Cap nasce dalla solita formula magica di una scienza ai confini della realtà e, di fatto, nasce in campo fantascientifico; ma la sua vita si sviluppa nel terreno più materiale della guerra. Leggendo le sue avventure, si dimentica presto la matrice SF. Solo molto dopo, quando il personaggio tornerà in vita con la Marvel, la sua valenza fantascientifica tornerà in auge (soprattutto nelle storie di Teschio Rosso).

Cap è un eroe a tutto tondo. Fiero paladino dell’americanità prima; tornato in vita dopo una lunga ibernazione, diventa il primo feroce critico della nuova America, fino ad arrivare, in tempi recenti, ad opporsi fieramente ai dettami di una Stato di Polizia che vuole limitare i diritti umani (il crossover Civil War).

Il travagliato passaggio del fumetto fantascientifico a cavallo delle seconda Guerra Mondiale è segnato senza dubbio dal genere supereroistico; ma, in realtà, molti altri fumetti, meno noti, parlavano di viaggi interstellari, di realtà parallele, e di altro. Ma in un momento in cui il mondo era sull’orlo dell’autodistruzione, purtroppo era fin troppo facile affidare la propria fantasia e la propria speranza all’atto coraggioso di un solo uomo, il supereroe di turno. Infatti, subito dopo la guerra, finisce la golden age dei fumetti, e si assiste ad un progressivo declino del supereroe.

Bisogna aspettare quasi un decennio per veder rinascere una nuova forma di fumetto fantascientifico di stampo supereroistico. La nuova formula, ideata da Stan Lee, è “supereroi con super problemi”. Un colpo di genio assolutamente confacenti ai tempi, quegli anni Sessanta, tutti un fermento di lotte per i diritti civili, per la libertà di espressione e di pensiero, dove le nuove generazioni combattono contro le vecchie per liberarsi dai comportamenti bacchettoni e ottusi che li vogliono prigionieri di stilemi cristallizzati e anacronistici.

I teenager supereroi come Spiderman o i Fantastici 4, spavaldi e spacconi, devono fare i conti con amori, studio, lavoro, parenti, perdite e quant’altro faccia delle loro vite delle vite. Tutti sono figli dell’Atomo (il ragno radioattivo, i raggi gamma, ecc…), perché il tremendo frastuono con cui si è chiusa la Guerra Mondiale e si è aperta la Guerra Fredda, non può essere ignorato. L’Atomo è destinato a cambiare per sempre la razza umana, fin dentro il suo DNA, ed ecco che nasce il Mutante. Concetto ampiamente diffuso nella fantascienza letteraria (si pensi a uno dei protagonisti del ciclo della Fondazione di Asimov, il MULO, o The Mule, nella versione originale). Il Mutante non è supereroe per caso, nasce dotato di superpoteri, che lo rendono superiore, ma anche diverso. Tanto che il confine tra la superiorità e la diversità è sottile, quasi impercettibile.

Gli X-Men, il cui capo, il professor X, tanto somiglia al Mulo asimoviano, sono l’emblema dell’era atomica e, nello stesso tempo, di un’epoca di segregazione raziale. La loro diversità, infatti, li rende dei reietti, che necessitano di nascondersi, di sparire dalla società. Nessuno ha fiducia in loro, perché loro sono esseri sconosciuti, e ben si sa che l’uomo ha sempre paura dell’ignoto.

Tracciare, quindi, la storia della razza umana nel periodo che va dalla preparazione alla seconda guerra mondiale, al suo svolgersi e alle sue conseguenze, passa in modo inevitabile dallo studio dell’intrattenimento di massa, quale sono i fumetti e la fantascienza; in questo caso legati da un connubio indissolubile. Vediamo, dalle pagine di questi pulp, trasudare storie ed emozioni forti e a volte ingenue, di un paio di generazioni che guardano al futuro con la doppiezza del bicchiere mezzo vuoto/mezzo pieno. L’arco temporale che va dalla metà degli anni Trenta alla metà degli anni Sessanta, segna anche il nostro presente come epigoni di un Ventesimo secolo che non vuole finire e un Ventunesimo che non si decide ad iniziare. 

Valenza Didattica del genere Fantastico

Il genere Fantastico è sempre stato una chiave di accesso, senza dubbio preferenziale, per le giovani menti. Tradizionalmente, la favola, il mito, la leggenda, hanno sempre attirato i giovani che ne hanno fatto, a volte, veri e propri motivi di vita. Intere generazioni sono state educate e spronate tramite il racconto di storie fantastiche che insegnavano loro le basi dei buoni sentimenti, le modalità per distinguere il bene dal male, e il buon senso. Per dirla con Tzvetan Todorov, insigne studioso bulgaro, “Il fantastico si muove sempre tra meraviglioso e perturbante (o strano), il primo essendo la narrazione dove elementi irreali sono presenti nella storia senza che la loro sussistenza crei problemi epistemologici agli attanti ; il secondo è invece quella narrazione dove il momento di incertezza ("è vero o è falso quello che sto vedendo?") si risolve con una riaffermazione dei principi realistici”. Quindi il Fantastico serve a riaffermare dei principi realistici, una affermazione che sembrerebbe una contraddizione in termini: come può una cosa che non esiste riaffermare la realtà?...

 

Valenza Didattica del genere Fantastico.[...]
Documento Adobe Acrobat [346.2 KB]

Star Trek The Original Series: la rivoluzione silenziosa

Piccolo saggio su la serie più famosa della TV e la società americana dei Sixty, ad uso e consumo di chi dice che Star Trek non riguarda la SF…

 


Non sempre le rivoluzioni si combattono con la spada e con il sangue, a volte sono battaglie silenziose che s’intraprendono quasi per caso e alla fine si diventa fautori involontari di un cambiamento epocale. Nulla sembra più lontano da questo concetto come una piccola serie di fantascienza che veniva alla luce quasi per combinazione, nella metà degli anni sessanta, sugli schermi televisivi statunitensi, eppure…Quello che stava per accadere avrebbe cambiato per sempre la storia della società americana, dando nuove chiavi di lettura del presente, permeando profondamente di sé la stessa concezione del futuro, e creando delle icone che sono entrate come leggende nell’immaginario collettivo; ma andiamo con ordine e, per prima cosa, facciamo un passo indietro “culturale”.

Durante il regime fascista in Italia nacque una corrente poetica chiamata “ermetismo”, essa si prefissava, attraverso un’elaborata costruzione lirica di difficile comprensione, di esprimere idee e pensieri che potessero bypassare la feroce censura del regime. Uno dei maggiori poeti ermetici fu il premio Nobel Salvatore Quasimodo, che, attraverso i suoi versi, diede voce alla volontà pacifista degli intellettuali del tempo, sottolineando gli orrori e le visioni distorte della vita che il governo di “allora” propinava agli italiani. Lo stesso concetto della poesia ermetica, vale a dire nascondersi dietro un solido e rigido apparato culturale per poter meglio sbeffeggiare i censori e i controllori, sta alla base di una certa fantascienza, soprattutto quella nata nell’immediato dopoguerra; citiamo tra tutti il grande G.Orwell, ma potremmo proseguire con Heilain, e concludere, negli anni sessanta con Star Trek: TOS.

Per capire bene quale grande episodio culturale sia stata la serie classica di ST, bisogna fare un’altra premessa sull’America degli anni sessanta. In effetti, questo decennio è stato uno dei più sezionati, o meglio, vivisezionati ( e sì, perché quando ancora gli anni Sessanta dovevano finire, c’era già chi li studiava da “vivi”), dalla sociologia, dalla filosofia e dall’antropologia di fine secolo. Dai Kennedy a M.L. King, dal volo sulla Luna alla Guerra nel Vietnam. Ma cosa erano in realtà gli USA di quel periodo? Erano un luogo dove il passato e il futuro venivano prima in contatto e poi drammaticamente in collisione; erano la prova di maturità di una superpotenza che, nel decennio successivo, avrebbe condotto una guerra che di freddo aveva solo il nome; erano un crogiuolo di speranza (il messaggio pacifista del reverendo King e la Conquista dello Spazio), ma anche di tragedie (la guerra e le lotte razziali).

In questo contesto un giovane e sfrontato ex poliziotto decide di sfondare nel campo della TV, che, per dirla con il già citato Orwell, più che il “grande fratello”, potrebbe essere chiamata la “grande sorella”. G. Roddenberry, nell’ideare la TOS, ha in mente un vecchio concetto tutto americano, “la frontiera”. Vale a dire la necessità dell’uomo di avere un continuo traguardo da raggiungere. Era stato tutto ciò a spingere i pionieri ad avanzare da est verso il lontano ovest (il mitico Far West); ma una volta arrivati al mare, questi esploratori non erano sazi di nuove mete, ed allora si erano inventati la “frontiera finale”, l’ultima frontiera, l’universo. La corsa allo spazio era stata spasmodica tra americani e sovietici, perché rappresentava un viatico incredibile per una propaganda senza fine. Allo spazio erano arrivati prima i russi, ma alla Luna arriveranno prima gli USA, la conquista dell’ultima frontiera era appena agli inizi, ma in TV era andata ancora più avanti.

Una carovana di pionieri”, era questa l’idea originale dietro la TOS che Roddenberry aveva sbandierato ai quattro venti a tutti i responsabili dei network televisivi cui aveva proposto il suo progetto e, in effetti, quello che risulta essere Star Trek non è poi tanto dissimile alla spedizione di esploratori vagheggiata dal suo creatore. Ma è a questo punto che la rappresentazione fantastica diventa un’arma di grande efficacia. Lo spazio assume i contorni chiari e netti di una metafora, quel futuro che la società americana sta lentamente scoprendo; e il percorso intrapreso dai nostri “carovanieri”, da Kirk, Spock e McCoy, più che scoprire “pascoli” o pianeti da sfruttare, si relaziona con inquietanti e insospettati casi “sociali” e “antropologici”. Ed ecco la cultura del diverso, dell’IDIC; dell’interrazziale; del mutuo soccorso; del pacifismo…E fermiamoci qua giusto per mettere tutto in ordine. La science-fiction, dicevamo, è l’arma adatta per parlare di corda in casa dell’impiccato; e la censoria tv di allora (che, lasciatecelo dire, fa il paio con quella di oggi) molla un po’ la cinghia, perché tanto : “…E’ solo fantascienza!”. Ecco come nasce quella lunga sequela di rivoluzioni silenziose che contraddistinguono la TOS. Vediamole più da vicino.

In primo luogo, a parte il concetto di frontiera, la serie classica di ST è il prodotto televisivo meno americano messo in onda dalla televisione statunitense dei Sixty e anche di oggi, tranne qualche lieve caduta di gusto (Le Parole Sacre e il Lincon di Sfida all’Ultimo Sangue). Nessun accenno patriottico, nessun proclama sulla superiorità del popolo a stelle e strisce; tanto che tra i sette personaggi principali solo due sono inconfondibilmente yankee: Kirk e McCoy. Gli altri spaziano tra l’Europa (Scott e Checov), l’Africa (la bella Uhura) all’Asia (Sulu) e un pianeta straniero (Spock). Una scelta precisa che ci introduce alla seconda rivoluzione, l’inter-razzialità che permea di sé tutta la serie. Nessun distinguo, nessuna preclusione per il diverso. Il futuro è un’epoca illuminata dove il “mostro” non esiste. Inutile citare per i trekker più appassionati l’episodio chiave che esplicita fin troppo bene questo concetto : Il Mostro dell’Oscurità. Qui facciamo conoscenza di un popolo particolare, gli Horta, che vivono tra le rocce e sono fatti di silicio. Gli Horta, per continuare il precedente parallelo con i pionieri del far west, sono un po’ come i pellirossa: vedono la loro terra invasa e reagiscono. In effetti, contemporaneamente al cinema (che per la prima volta negli anni sessanta redime gli indiani americani in pellicole di grande rilievo), anche ST compie un vero e proprio capovolgimento copernicano della prospettiva: noi come ci comporteremmo se invadessero la nostra terra e uccidessero i nostri figli? Lo scambio di battute tra il responsabile delle miniere e Kirk è emblematico a proposito: “Quell’essere ha ucciso cinquanta dei miei uomini!”, dice il primo, “…E voi migliaia dei suoi figli!”, risponde il secondo. Gli Horta e gli uomini possono vivere insieme, cooperando per uno scopo comune: è questo il messaggio che la storia ci lascia. Una tesi forse troppo buonista e ottimista (…conoscendo l’uomo…), ma senza dubbio innovatrice per una società come quella americana di allora che fino ad un paio d’anni prima proponeva improbabili figure di indiani come novelli “Erode” o “Nerone”. Quindi, dopo il rifiuto del bieco e bigotto patriottismo e la ferma scelta della cultura del diverso, il terzo anello di questa lunga catena rivoluzionaria è la nuova visione della donna. ST:TOS è un continuo oscillare tra il proporre la componente femminile come contributo estetico, e il presentare la donna come elemento attivo e fattivo della storia. Vi sono, infatti, diverse figure femminili, che lasciano trasparire forme stupende e sensuali (quasi tutte prede di Shatner, beato lui…), ma a fare il paio con queste ve ne sono altre di grande spessore; non mancano donne potenti e in ruoli chiave (non dimentichiamoci che in “The Cage”, il primo pilot della serie, la Numero Uno è una donna!), come la sfrontata Elena di Troia, o la dottoressa di Inversione di Rotta, ma anche il leader dei Trogloditi in Una città tra le Nuvole; ma il personaggio che più di ogni altro capovolge il concetto che fino a quel momento si era avuto della donna e, soprattutto, della donna di colore, è Uhura. Uhura sfoggia la sua minigonna, che i produttori della serie hanno voluto così smodatamente prorompente per attirare il pubblico maschile, con piglio deciso e senza mezzi termini; non rinuncia alla sua femminilità, che l’attrice N. Nichols trasforma da “punto debole” in punto di forza del suo personaggio; e, nello stesso momento, è un membro determinante dell’equipaggio: “Cosa crede che significhi addetta alle comunicazioni? Dire solo: Frequenze aperte?”. Un aspetto di “donna di colore” decisamente nuovo per la realtà del tempo, che non trova riscontro né in televisione, né al cinema, dove le afroamericane sono ancora delle “balie asciutte” per rampolli di ricche famiglie bianche. Si può benissimo dire (anche perché tanti testimoni dell’epoca lo affermano) che la figura della bella Uhura sia stata, insieme alle tesi di M.L.King, uno dei messaggi più forti e decisi contro la discriminazione razziale, imperante negli USA dei Sixty . Infine, abbiamo, quella che oggi potremmo pomposamente definire, la “questione politica”. Come detto, i censori del tempo permettevano alla SF di spingersi acutamente molto più in là di altre serie televisive di ambientazione più “realistica”. Ecco dunque, ST:TOS prendere posizione in quelle che furono le questioni nodali di allora: i figli dei fiori e la loro ricerca della pace, in Viaggio Verso Eden; i contrasti con l’URSS e la guerra fredda, che si rivedono nei rapporti con i Romulani; le lotte razziali, che si ritrovano in numerosi episodi, ma soprattutto nel bellissimo Sia Questa L’Ultima Battaglia, con gli incredibili alieni bicolore; e poi l’etica della scienza ne Il Computer Che Uccide e quella della vecchiaia ne Gli anni della morte; la favola ecologista in Il Paradiso Perduto; e tanti altri temi ancora. Se si pensa che appena un lustro prima di ST:TOS, l’America era stata scossa dalla Caccia alle Streghe che condannava sommariamente ogni messaggio di matrice anche solo vagamente sinistrorsa, le prese di posizione di Robbeberry e CO. risultano veramente ardite, anche per il solo fatto di affrontare tematiche così scottanti. D’altro canto, la fantascienza di allora vedeva il futuro sociale e politico dell’uomo come funestato da una serie incredibile di negatività: dalla guerra atomica al disastro ecologico; ed anche in questo gli artefici di ST hanno saputo remare controcorrente. L’umanità del 23° secolo ha vissuto le guerre Eugenetiche, le guerre atomiche, ma è riuscita a sopravvivere e ad evolversi in un modello di vita superiore, un miglioramento assoluto dell’uomo. Questo ottimismo, rappresenta un’indiscutibile rivoluzione all’interno “dell’intelighenzia” ben pensante del tempo. Ed ancora una volta tutto ciò, solo la fantascienza poteva permetterselo.

ST:TOS è, quindi, per tali motivi e per tanti altri che in questa sede sarebbe troppo limitato esporre, un vero pilastro della storia televisiva (e quindi sociale) di tutto il mondo, giungendo di fatto, dove nessun’altra serie del piccolo schermo è mai giunta prima.

STAR TREK: LO SCISMA

Ovvero, cosa raccontare sull’ultimo film di Star Trek senza farsi prendere dall’entusiasmo

 

di Claudio Chillemi

 

 


Potrei iniziare con tutto ciò che nel film non rientra nei canoni trekker, oppure elencare ciò che ci rientra; potrei continuare a parlare del film come mero appassionato di fantascienza, oppure come cinefilo; oppure, potrei parlare del film come semplice spettatore che vuole andare al cinema per divertirsi. In effetti, questo film mi mette in grave soggezione su come commentarlo, allora mi è parso più appropriato scrivere queste pagine da diversi punti di vista, iniziando come….

 

SEMPLICE SPETTATORE

 

Il film è un ottimo prodotto cinematografico dell'ultima generazione, con tanto di attori piacenti, spumeggianti effetti speciali, trama abbastanza equilibrata che mixa una buona dose di azione, umorismo, sentimento e mistero. Un tentativo abbastanza riuscito di rifare il look ad una serie, ad una storia, a delle icone che il tempo non ha minimante cancellato. Per tutto questo il film fa divertire, ti tiene incollato alla poltrona del cinema con il disinganno e il disimpegno di colui che non vuole porsi particolari imperativi morali o etici, che si accontenta di rivedere per l’ennesima volta la stessa scena apparsa in migliaia di film. J.J. Abrams in questo è un maestro perché, come ha già fatto in molte altre sue opere, rimanda in modo più o meno subliminale a molti stereotipi dell'immaginario collettivo, mettendo a proprio agio la mente dello spettatore che, ritrovando il familiare (l’eroe bello e spaccone, la missione impossibile che si compie all’ultimo istante, l’amicizia virile, ecc…), esce dal cinema soddisfatto. Certo, l'entusiasmo degli spettatori che hanno premiato il film sin dal suo primo week end, e di molti critici fa pensare che anche come film Star Trek sia eccelso. Su questo francamente dissento. Il film è una tale accozzaglia di luoghi comuni da far rabbrividire: la nascita di Kirk in 12 minuti (!?) all'inizio del film con tanto di decisione sul suo nome mentre il padre va a morire è un'americanata della peggiore specie; Kirk adolescente che guida un'automobile nel deserto inseguito da un poliziotto è un espediente narrativo così trito e ritrito da sembrare ridicolo se non fosse per le scene successive, dove si fa anche peggio. Come, ad esempio nella scena del bar all'inizio del film. Qui Kirk, bello e maledetto, tenta di attraccare la splendida Uhura, recluta della flotta stellare, che impersona la donna sicura di sé che ammicca ma non cede. Ovviamente (é proprio il caso di dirlo) intervengono quattro baldi giovani amici di accademia della donna: inevitabile la scazzottata, interrotta dal capitano Pike, amico e ammiratore del padre di Kirk che gli rifila il solito pistolotto paternalistico su "come sarebbe importante avere gente nella   flotta   stellare come lui...": non vi ricorda qualcosa come un migliaio di film solo nell'ultima decade? Insomma, il film è una spettacolare azione di marketing (un Blockbuster, per dirla all’Americana) condita di luoghi comuni, per rilanciare un marchio che, dopo le ultime apparizioni televisive e cinematografiche, stava in effetti ristagnando e rischiando di sparire (francamente questo è il suo unico punto di forza, per carità non indifferente, anzi, sicuramente molto importante); ma, allo spettatore svagato, questo non riguarda, anzi, si lascia rapire dalle immagini ben confezionate da effetti speciali splendidi, da una musica accattivante, da scenografie e costumi mozzafiato e, soprattutto, dal frenetico montaggio del film che ripercorre (ma è proprio il caso di sottolinearlo?) la moda attuale di pellicole a velocità warp così diffuse negli ultimi anni nelle sale cinematografiche di tutto il mondo. E qui ci fermiamo. Voto 6.

 

DA TREKKER SFEGATATO

 

Il film è veramente un ottimo prodotto cinematografico ma, semplicemente, non è un film di Star Trek ma su Star Trek. Sembrerebbe una differenza capziosa, ma non lo è. Che J.J. Abrams fosse un furbo di tre cotte era cosa nota, solo un furbo avrebbe potuto far passare per farina del proprio sacco un misto tra L’Isola Misteriosa di Verne, La Tempesta di Shakespeare e L’Isola del Dottor Moreau come è Lost. D’altro canto si potrebbe anche obiettare che “dopo l’Iliade e l’Odissea” qualunque cosa si scrive è comunque una copia di questi due capolavori (anche Star Trek, ovviamente). Per carità, lungi da me l’idea che nella fantascienza e in Star Trek si possa ancora dire qualcosa di veramente nuovo; ma, tra la citazione dotta (chiamiamola ispirazione culturale) e il plagio vi è una sottile differenza che spesso e volentieri Abrams ha varcato, ma non involontariamente, anzi, con la precisa consapevolezza che plagiando si cattura in modo subliminale l’attenzione dello spettatore. Quindi, cosa vuol dire che questo film non è un film di Star Trek, ma su Star Trek? Che questo film nasce un po’ come il mostro di Frankenstein, da pezzi di cadaveri di altri film della serie, per giunta assemblati male e, per giunta, commisti a luoghi comuni della fantascienza cinematografica, nella fattispecie relativi a Star Wars.

Ma andiamo con ordine e vediamo i fatti.

All’inizio del film vediamo che il nemico di turno, Nero, romulano che ha visto distruggere il suo pianeta, sbarca nel passato attraversando un buco nero, del tutto convinto di dover trovare vendetta nell’annientare a sua volta Vulcano e la Terra. Nero distrugge l’astronave dove presta servizio il padre di Kirk, alterando quindi la linea temporale. Il giovane Jim, infatti, non crescerà tra gli insegnamenti paterni (così come vuole la timeline originale della serie, che prevede anche un fratello per quello che sarà il futuro capitano dell’Enterprise); ma, rimasto orfano, si darà alla bella vita, all’avventurismo estremo, al vagabondaggio. Un’idea geniale, si potrebbe dire, con una timeline alternativa Abrams salva il vecchio Star Trek e si può permettere di costruirne uno nuovo senza preoccuparsi della continuity. Peccato che il difetto stia nel manico. Perché, se da un lato è plausibile che la perdita del padre sbandi il giovane Jim Kirk, dall’altro non si spiegano tutte le altre alterazioni che riguardano i personaggi principali della saga. Il film è troppo veloce per spiegare allo spettatore come “A porti a B e B porti a C”, così ci ritroviamo tra le mani uno Spock che assegna all’Enterprise la sua amante Uhura già destinata ad un’altra nave con un favoritismo degno del nepotismo napoleonico; senza sapere come e perché questa timeline alternativa, alteri a tal punto Spock da fargli perdere il suo tradizionale amore per la giustizia e l’equità, tanto da favorire la donna che ama. Già, ama. Perché Spock è innamorato. Nulla esclude che Spock da giovane si sia potuto innamorare, per poi diventare il freddo e logico vulcaniano della serie classica, quando è andato avanti con l’età; nulla lo esclude, ma allo spettatore più attento non può non sfuggire che in nessuna parte del film ciò è spiegato. Sarebbe bastata una battuta del vecchio Spock, quello interpretato da Nimoy, una frase del tipo “A quei tempi ero anche capace di amare”; parole innocue che non avrebbero inficiato il film di Abrams ma avrebbero giustificato tante cose, dando allo stesso film un’aura di romantica malinconia. Poi, più avanti nel film, Spock vede distruggere Vulcano e perde anche la madre. Apriti cielo! A quel punto, il freddo e logico vulcaniano, sfodera una perdita di controllo appresso l’altra: abbandona Jim Kirk in un pianeta ghiacciato per punirlo di averlo contraddetto in Plancia; manifesta senza ritegno una serie di effusioni pubbliche con l’amata Uhura; arriva quasi a strozzare Jim Kirk che lo “induce a manifestare le sue emozioni” per la perdita della madre e del pianeta natale; insomma si trasforma. Anche questo è giustificato dalla timeline alternativa? Forse, può essere, ma in nessuna parte del film è spiegato. Abrams ha la sua religione a cui bisogna credere ciecamente. Il vecchio Spock (Nimoy) dice al giovane Kirk “ho perso il mio pianeta, sono già coinvolto emotivamente, lei mi deve spingere a manifestarlo”, questo potrebbe spiegare alcune cose, peccato che il vecchio vulcaniano, in mille altre occasioni, pur essendo coinvolto emotivamente e pur essendo stimolato all’uopo, non ha manifestato proprio nulla, quando? Viaggio a Babel, ad esempio. Suo padre sta morendo, sua madre lo schiaffeggia e gli dice “ti odierò per il resto della vita” e lui non si scompone, anzi non consegna il comando a Scotty (buon ufficiale, ma non in situazioni di gravità) come invece fa nel film in cui consegna il comando a Kirk. Si potrebbe obiettare, quella è un’altra timeline, e quello è uno Spock più vecchio del pivello che appare nel film, ed è quindi più capace di reggere le emozioni. Ma dove è spiegato? Si potrebbe ancora una volta controbattere che, a volte, non bisogna spiegare tutto, vero; ma non si pretendeva certo un monologo che avrebbe rallentato l’azione adrenalina del film, bastava far dire al vecchio Spock: “ho perso il mio pianeta, sono già coinvolto emotivamente come non lo sono mai stato, lei mi deve spingere a manifestarlo”. Ecco, la totale mancanza di queste piccole sfumature fa si che l’idea che ci facciamo di Abrams è quella di una persona che non ha nessun minimo rispetto per i vecchi fan della serie; dico minimo perché con il minimo sforzo avrebbe potuto accontentare parecchia gente. Ma andiamo avanti.

Cosa dire degli altri personaggi della serie? Sicuramente il più fedele alla serie classica è il buon McCoy, qui molto più giovane di quello conosciuto da anni; ma abbastanza verosimile, sia come modi che come verosimiglianza caratteriale. A questo fa eco anche Scotty, forse un po’ sopra le righe, ma sicuramente affine all’ingegnere della TOS magnificamente interpretato da J. Doohan. Di Uhura possiamo dire che l’interprete dell’ultimo film, Zoe Saldana, in parte ricalca la magnetica personalità di N. Nichols; in parte, però, la sceneggiatura la mette in una posizione strana (per il personaggio, s’intende) di innamorata di Spock: il mix che ne esce fuori è intrigante e nuovo e ben promettente, speriamo, per il futuro. Di Sulu e Cechov cosa dire? Un po’ macchiette dei vecchi personaggi, un po’ personaggi del tutto nuovi, ma mai veramente nuovi e mai veramente vecchi, da rivedere.

Passiamo ora al personaggio che più di ogni altro è stato stravolto da Abrams e dalla sua “banda” di sceneggiatori: Spock. Di Spock abbiamo già parlato, direte; ma lo Spock di cui abbiamo parlato è quello interpretato da Z. Quinto, quello di cui vogliamo parlare ora è quello interpretato da Leonard Nimoy. Il vecchio Spock quello che, per intenderci, non è stato cambiato dalla linea temporale. Ecco, lui, è veramente un altro personaggio, violentato fin dalla radice, completamente riscritto da questo film. Ci siamo soffermati a lungo sulle differenze che i nostri personaggi hanno rispetto a loro stessi nella "vecchia" realtà di Star Trek ma nessuno si è chiesto: ma il vecchio Spock, quello che non ha subito nessun cambiamento dalla timeline alternativa, quello che è rimasto lo Spock di sempre, secondo voi direbbe alla fine del film: "Ho già individuato un pianeta su cui stabilire una colonia vulcaniana"? Oppure, come ha già fatto con le "balene" di Star Trek IV, con il guardiano dell'eternità in Uccidere Per Amore, e con mille altri episodi, torna indietro nel tempo per ristabilire la timeline? E’ questa rassegnazione che stona veramente. Spock è quello che ha sempre detto "esiste sempre un'altra opportunità", e questo Spock, lo Spock della vecchia timeline, si rassegna a perdere il suo pianeta natale, sua madre, ed altro e tanto altro ancora, senza fare niente? Difficile da credere. E' questa la vera anomalia del film. Il vecchio Spock avrebbe fatto di tutto per tornare indietro nel tempo e ristabilire la timeline originale, e non c'è nessun ragionamento che possa far cambiare idea. A J.J. Abrams sarebbe bastata ancora una volta una frase, un piccolo accento come: "Farò di tutto per far tornare a posto ogni cosa..." oppure "Esiste sempre un'altra opportunità", una cosa del genere, e già il film avrebbe avuto un'atmosfera diversa. In realtà, Abrams non ha voluto fare questo, perché non ha nessun interesse a tornare indietro: nella realtà del nuovo Star Trek non esiste più lo Star Trek che conosciamo, non è una realtà alternativa, non è nulla, è solo Star Trek riscritto per le nuove generazioni, basta. Il vecchio Star Trek esiste nelle nostre case, nelle nostre menti, in 700 episodi e 10 film, che sono tanta bella roba da vedere e rivedere, e di questo non si può non essere contenti. Non spacciamo per Star Trek quella che è una mera azione commerciale, portata avanti da un genio del Prodotto (con la P maiuscola) televisivo e cinematografico come Abrams. Voto 4.

 

DA APPASSIONATO DI FANTASCIENZA.

 

Cosa dire da appassionato di fantascienza? Innanzitutto che in questo film di scienza ce n’ è pochissima. Al contrario di tutti gli altri film e telefilm della saga (pensate ai libri La Fisica di Star Trek o La Chimica di Star Trek, per intenderci), dove la Scienza è alla base di molte scelte narrative; in questo film, semplicemente, essa non esiste. La scelta degli sceneggiatori è stata semplice (o semplicistica?): noi scriviamo la storia, la scienza sta sui libri. Elencare le anomalie (è proprio il caso di dirlo) scientifiche è cosa che richiederebbe un bel volume da trecento pagine: buchi neri che compaiono e scompaiono come funghi; viaggi nel tempo attraverso una supernova trasformata in buco nero; uomini che si gettano dallo spazio infrangendo l’atmosfera senza carbonizzarsi; e chi più ne ha più ne metta. La scienza quindi scompare quasi del tutto, ma poco male: molti film di fantascienza non mettono proprio in primo piano l’attendibilità scientifica, questo insieme agli altri.

Di scienza poca, e di fantasia? Ancora meno, si pensi ad esempio allo sgangherato viaggio nel tempo di Nero che giunge nel passato 25 anni prima del vecchio Spock, senza sapere se: Spock è già giunto; se è giunto, quando è giunto (100 o 1000 anni prima, come fa a saperlo?); se non è giunto, giungerà o non giungerà mai? Cosa fa nel quarto di secolo che lo aspetta: distrugge la USS Kelvin e poi si sta fermo, buono buono? Cosa accade nel frattempo? Ma passiamo alla storia. Già chiamarla storia è un’iperbole. Di pazzi fuori di testa che vogliono vendicarsi per la morte della famiglia distruggendo tutto ciò che hanno a tiro è piena la cinematografia, più o meno di serie A o B, degli ultimi cinquant’anni. Se poi si pensa che i suddetti pazzi fuori di testa 99 volte su cento sono fermati da un manipolo di giovani eroi senza macchia e senza paura, non si può fare a meno di iscrivere Star Trek XI in questa categoria dal sapore marcatamente déjà vu. Il sapore del già visto però non si ferma qui. In primo luogo perché Star Trek XI assomiglia in modo inquietante a Star Trek X: stesso nemico romulano fuori di testa (Mentalmente disturbato, dice Nimoy in una delle rare battute che gli assomiglia); entrambi sono minatori; entrambi calvi e con un’astronave imbattibile; entrambi vogliono vendetta (Nemesi) nei confronti della Terra e vogliono quindi distruggerla; e si potrebbe continuare. Le differenze? In Star Trek X l’equipaggio è ingrassato (si pensi al matrimonio degli ultracinquantenni Troy e Riker, su tutto!) e vecchio tanto quanto, in Star Trek XI è strafico e tirato a lucido; in Star Trek X il buon Shizon parla e straparla tanto quanto in Star Trek X Nero è mutangolo e ammiccante. Poi nulla più, forse solo il fatto che Star Trek X si chiude con un estremo sacrificio, laddove Star Trek XI si apre con un estremo sacrificio. Ma se Star Trek XI, alla fine, assomigliasse solo a se stesso, poco male il problema è che assomiglia a ben altro, e questo un qualunque appassionato di fantascienza non può non vederlo. Abrams ha colto senza dubbio, e immediatamente, il modello commerciale vincente del film di fantascienza: Guerre Stellari. Così come il primo film della saga trekker, datato 1979, prende spunto dal successo mondiale di Star Wars (uscito un anno e mezzo prima), anche questo si rifà alla storia creata da G. Lucas e ne assume talmente i panni da sembrare un clone (e nel caso di Star Wars come non dirlo) ben riuscito. E' da allora che Star Trek scimmiotta Star Wars, ma qui si raggiunge il massimo. E’ vero, ribadiamo, che il primo film Star Trek The Motion Picture uscì all’epoca grazie alla spinta del film di Lucas che rilanciò il genere fantascientifico, ma a parte questa innegabile concomitanza, non si capisce perché da questo lontano momento Star Trek debba seguire le orme di Star Wars: Lucas fa un Prequel, allora prima si fa il prequel Enterprise ed ora il prequel di Star Trek – Il Futuro ha Inizio. Troppe cose, in questo ultimo film, ricordano la saga di Lucas: il bar di cui sopra (con tanto di alieni che ammiccano all'esalogia); il pianeta di ghiaccio e i mostri che vi si trovano (a proposito, che supereroe Spock bicentenario che con una torcia fa scappare il ragno gigante!?); la battaglia tra Kirk e Nero nella Narada tra le piattaforme sospese (ricordate Luke e Veder?); l'alieno nanerottolo che fa compagnia a Scotty che ricorda gli alieni nanerottoli della Rivincita dello Jedi; e poi, in ultima ma non ultimo, la vicenda di Kirk Skywalkizzata: il giovane contadino che cerca riscatto seguendo la carriera del padre tra le stelle!? Perché, mi domando, Star Trek, padre putativo dell'intera fantascienza televisiva e cinematografica, deve scimmiottare uno dei suoi figli più illustri? Poi, vogliamo mettere gli stessi, straordinari, effetti speciali del film a cura della L&M, l’industria di proprietà (guarda un po’…) di G. Lucas, che creano una patina “Star Wars” in tutto il film, iniziando dai particolari: le navette (che in Star Trek sono sempre lucide e pulite) in queste film sono "sporche" e usurate proprio come in Star Wars (e questo non lo diciamo noi, ma un responsabile della stessa L&M che afferma "la maggior differenza negli effetti speciali tra Star Trek e Star wars è che nel primo le astronavi sono linde e pulite nel secondo vissute e sporche"!); per finire agli effetti più grandi: la fuga del giovane Spock a bordo della navetta del vecchio Spock tra le spire della Narada ricorda in modo inquietante lo X Wing di Luke Skywalker che fugge dalla Morte Nera. Si potrebbe continuare in una sterile caccia alla somiglianza che svilirebbe sia l’appassionato di Star Trek sia quello di Star Wars. Ma fermiamoci qui. Voto 4.

 

IL PRESUNTO SUCCESSO MONDIALE DEL FILM.

 

I patiti del film (85% dei fan ha approvato il film, un dato che appare chiaro da numerosi sondaggi apparsi in più siti Internet) strombazzano ai quattro venti che il film è una bomba che ha avuto un gran successo, che ha incassato una barca di soldi.

Il film ha, in effetti, incassato tanto (per essere un film di Star Trek, ovviamente) ma…In primo luogo, attualizzando gli incassi, alla fine non ha incassato molto di più di Star Trek The Motion Picture e di Star Trek Rotta Verso La Terra. In secondo luogo, la Paramount, per questo film, ha speso parecchio di più di tutti gli altri film: 160 milioni di dollari per la produzione e 100 milioni di dollari per la promozione: mica bruscolini. Ci si potrebbe chiedere: un film come Primo Contatto, con 100 milioni di promozione, con i trailer ad orologeria, con le interviste in prime time televisivo da parte dei protagonisti, quanto avrebbe incassato? Le voci di successo creano moda e quindi successo, e in questo Abrams ed i suoi sono stati sopraffini maestri. Ora che il marchio di Star Trek è stato rilanciato, tutti coloro che guadagnano su Star Trek saranno contenti, dal semplice venditore di gadget al presidente della major che lo produce. Si parla già di seguiti, si vocifera che sarà fatto resuscitare dalla tomba il buon vecchio Kirk, che sarà Khan il suo nemico, che ci sarà da divertirci con il nuovo equipaggio sbarazzino. E noi? Il 15% dei trekker delusi? Quelli che potremmo definire i “trekker ortodossi”? Potremmo organizzare uno scisma, oppure, come detto, attingere alla nostra personale montagna di DVD, dove sta il vero Star Trek da vedere e rivedere. Pensate che, guardandone un episodio al giorno, ci vogliono quasi due anni e mezzo per vederli tutti (si tratta di oltre settecento episodi), e lì la timeline alternativa non ha sortito alcun effetto, a meno che J.J. Abrams non scriva una storia dove qualcuno torna indietro nel tempo ed uccide Gene Roddenberry prima che crei Star Trek…Ops! Forse lo ha già fatto.

 

 

Fantascienza d’Italia

Ovvero quando a parlare sono i protagonisti

L’idea di far parlare sulla fantascienza italiana alcuni dei suoi più illustri protagonisti, è venuta alla redazione di Fondazione a pranzo. Uno di quei momenti di sublime convivialità e goliardia che non mancano durante le Convention. Progettare questa iniziativa non è stata, comunque, una cosa semplice, anche per una questione geografica: noi, poveri sudisti, ai confini dell’impero; e tutta la gente “che conta” al Nord, fatta eccezione, forse, per il buon Altomare. Nel periodo della posta elettronica, però, sono problemi risolvibilissimi ed è subito partita una lunga sequela di botta e risposta. Iniziamo, quindi, con la prima domanda e…Buona Lettura.


  1. Quali sono, a vostro parere, i rapporti tra la fantascienza italiana e il mondo culturale del nostro paese?

Lippi: Scarsi. Il mondo culturale ha un po’ dimenticato la fantascienza, volutamente e, secondo me, colpevolmente. Pochissimi giornali ne scrivono, radio e TV non ne parlano quasi mai, l’editoria non vuole sentir ragioni. Siamo in fase di luna nera, per tutta una serie di congiunture e miopie.

Vegetti: Oddio la nostra cultura è decisamente provinciale. Non è inusuale che i letterati (ma se per questo anche gli analfabeti) quando scrivono storie fantascientifiche, ci tengono a dire che le loro storie non lo sono.

Malaguti: Furono ottimi negli anni '60, particolarmente vivaci, quando ogni autore di estrazione "culturale" si cimentava (o, come da antico malvezzo, faceva finta di "inventare") con la fantascienza. Poi l'autoghettizzazione degli anni '70 e '80 - di origine fantascientifica - e la decadenza della cosiddetta "cultura" accademica nostrana hanno prodotto non tanto una frattura, quanto un'assenza di rapporti, tra i due mondi. Attualmente questi rapporti sono buoni quando si confrontano le parti migliori dei due schieramenti, pessimi quando si incontrano le parti peggiori, o, peggio ancora, quando si tentano piaggerie, vittimismi, crociate che non hanno senso né conseguenze utili. Ma è un discorso molto lungo, e non lo si può affrontare in poche righe.

Brambilla: Francamente non ne ho idea... sono due universi paralleli fatti di materia e antimateria? Mah... azzarderei un : rapporti pessimi e/o inesistenti.

 

Altomare: Fantascienza = ufologia. Appassionati di fantascienza = fanatici degli omini verdi.

 

  1. L’Italia ha senza dubbio una lunga tradizione in materia di letteratura fantastica che ci fa conoscere anche all’estero, se si pensa ad esempio al Pinocchio di Collodi o all’Orlando Furioso di Ariosto; per non parlare del popolarissimo Salgari. Eppure, nel mondo fantascientifico, non ci avviciniamo a questi livelli e i nostri scrittori hanno una rilevanza internazionale limitata rispetto, ad esempio, a quelli del mondo anglosassone, a vostro personale giudizio da cosa dipende tutto questo?

Montanari: Oltre al fatto che in Italia non si investe sul best seller di fantascienza, gli autori italiani che sanno scriverla non vengono considerati perché, appunto, scrivono fantascienza: un vero e proprio circolo vizioso. L’Italia inoltre ha una visione della cultura fantascientifica troppo stereotipata, questo non limita solo la capacità di crearla ma anche e soprattutto la capacità di capirla, quindi non è in grado di percepirne l’importanza, né di impegnarsi per promuovere all’estero gli scrittori e le opere che lo meriterebbero: altro circolo vizioso.

Altomare: Cacchio che domanda! Il paragone è terribilmente pesante. Ma forse possiamo usare una similitudine per rispondere. Quando ho iniziato a fare l'ingegnere nessuno mi conosceva se non per il mio nome e cognome. Mio nonno è stato un costruttore vecchia maniera, di quella generazione a cui bastava una stretta di mano per stipulare accordi. Dopo trent'anni di attività professionale mi sono ricucito addosso il nome tutto mio ed è molto raro oggi che mi associno a mio nonno. Ce ne ho messo di tempo, di pane duro e di notti insonni, ma ora mi sono costruito il mio recinto abbastanza ampio. La fantascienza italiana, seppur con basi antiche, è giovanissima, ha da poco cominciato a farsi conoscere in Italia e all'estero. Diamole tempo e qualcuno di noi sarà novello Dante o Ariosto. Ehm... esagerando un po'....

Malaguti: Dal fatto che il mercato anglosassone è il più ricco e numeroso del mondo, ma anche il più protezionista e sciovinista, di difficile accesso a chi non scrive in inglese: e dal fatto che di traduttori dall'italiano in inglese o in altre lingue ce ne sono pochissimi nel mondo. In più, non ci sono - come avviene in Canada, a esempio - incentivi governativi all'esportazione del prodotto letterario. In più, con il crollo dei grandi mercati dell'Est (ricordo che un libro di Lino Aldani faceva minimo due milioni di copie, in Unione Sovietica, a suo tempo) i nostri spazi si sono ulteriormente ristretti. Ma è un problema della narrativa italiana in generale, non di quella specifica del fantastico.

Brambilla: Penso che tra le cause ci metterei l'arretratezza culturale, la pessima abitudine di dividere la cultura in alta e bassa (e qui ci sta la fantascienza secondo la gran parte delle "persone di cultura" italiane insieme al fumetto e ai "cartoni animati"), il poco peso che diamo alle materie scientifiche rispetto alle materie umanistiche.... E non mi riferisco solo alla scuola. Gli autori che citate sono importanti ma morti da almeno un secolo... ok Salgari è morto nel 1911, quindi quasi un secolo... Ultimamente mi pare, da quel poco che leggo, che i nostri scrittori abbiano una limitata rilevanza internazionale non solo nel campo fantascientifico e forse è un po' tutta l'Italia che da un po' si è scelta (o ritrovata) la posizione di "provincia dell'impero" o no?

Sosio: Be', certamente Calvino ha questo tipo di rilevanza internazionale. Evangelisti a suo modo. Giriamo la domanda: quanti sono gli autori che non scrivono inglese ad avere rilevanza nel mondo della letteratura fantastica? Qualche esempio viene alla mente, ma si contano sulle dita. Molto banalmente, credo che la risposta sia che se scrivi in inglese puoi essere letto e tradotto in tutto il mondo, se scrivi in una lingua diversa sei handicappato in partenza.

Vegetti: Aver perso la guerra ha aiutato molto. Al senso di colpa per essere stati fascisti, si è aggiunto un senso di inferiorità. Scrivere all’italiana rischiava di far passare per fascisti o peggio. Di qui le storie, anche molto buone, a imitare gli americani. D’altra parte abbiamo ampiamente imbastardito la nostra lingua infarcendola, senza orgoglio, di parole straniere (senza adattamenti: direttamente in pseudo inglese, con a volte risultati ridicoli).

 

  1. Esiste, a vostro parere, una “sudditanza” della fantascienza italiana nei confronti di quella anglosassone? E se sì, che consigli date per affrancarci da questa sudditanza?

Sosio: Sicuramente. Sono molto pragmatico e terra terra: visto che la gran parte della fantascienza pubblicata è anglosassone, chi scrive fantascienza in Italia quasi sempre comincia a farlo sulla base delle sue letture. Posto che sia un male questa sudditanza, ed è tutto da dimostrare – la cultura anglosassone ha un sacco di cose da insegnarci, secondo me – riuscirermo a superarla solo quando (se mai accadrà) ci sarà un cospicuo mercato di autori italiani e cominceranno a nascere e crescere autori con punti di riferimento in scrittori italiani. Non credo sia il caso di trattenere il fiato nell'attesa.

Lippi: Esiste un’enorme sudditanza, nonostante tutto. Una volta verso la sf scritta, oggi verso il cinema. Non si può farci niente: il fascino che subiscono gli autori è contagioso. Nessun paese non anglosassone ha più un’autonomia nel campo del fantastico: ce l’hanno i tedeschi, forse? Eppure hanno avuto Hoffmann e Kafka. Ce l’hanno i francesi? Ahimé no, ed è un peccato per il paese di Verne e Jacques Spitz. Dipende dal fatto che l’industria della fantascienza e fantasy è stata creata dagli americani (a danno spesso degli stessi inglesi) e che la gente, di solito, non legge di propria iniziativa ma quello che passa il convento. A parte questo, la loro produzione è ricca e numericamente imponente da un secolo e mezzo.

Montanari: Se esiste, allora io non riesco a riconoscerla come tale. Né schiavitù né soggezione, semmai rispetto nei confronti di chi è stato capace di proseguire una tradizione centenaria senza mai declassarla a letteratura di serie B.

Vegetti: Attualmente la sudditanza è minore ed i lettori si stanno abituando a leggere gli italiani. Altieri sta facendo molto per la letteratura di genere. Se le sue scelte pagheranno, avremo un buon futuro davanti.

 

  1. Quali sono le tematiche, le forme narrative, gli espedienti espressivi, che la fantascienza italiana dovrebbe perseguire per darsi una sua identità che la renda originale e diversa dalle “altre” fantascienze di stampo anglosassone?

Brambilla: Non saprei, mi è difficile separare le fantascienze in base alla nazione dello scrittore o alla sua derivazione culturale. Quando un libro mi piace non bado alla percentuale di italianità che contiene, l'importante è che mi coinvolga e incuriosisca al punto da voler scoprire come andrà a finire il più in fretta possibile.

 

Altomare: Semplicissimo, prima di tutto pescare nel suo retroterra mitico-favolistico. Partendo dai romani e dai popoli che li hanno preceduti, ma anche senza andare troppo indietro nel tempo. Le nostre contrade sono così ricche di storie e personaggi fantastici che dovremmo sfruttare, mentre ci ostiniamo ad andare dietro a draghi, elfi, troll e funghi (come scherza una nota pubblicità). Finché proseguiremo per questa strada saremo sempre una colonia, e neanche troppo sviluppata. In secondo luogo tentare di sviluppare una narrazione mediterranea, solare e marinaresca.

Montanari: Se si studia a tavolino come costruire forme narrative originali, si perde l’originalità in partenza. Regole e forme meccaniche di scrittura nulla hanno a che vedere con l’originalità o l’identità che, a mio avviso, deve essere personale dello scrittore e non nazionale. Non si dovrebbe pensare a come scrivere, si deve scrivere e basta: sono la capacità espressiva e gli argomenti che lo scrittore è in grado di proporre che fanno la differenza, è l’istinto soggettivo che realizza l’opera e non la ragione oggettiva. Inoltre, inserire strutture e tematiche adeguate a una identità nazionale comporta il rischio di imprigionare la fantascienza italiana in Italia, di crearle una vera e propria cella di isolamento: la fantascienza deve oltrepassare i confini, non imporseli in nome di una illusoria originalità.

Lippi: Non esiste una ricetta e mi rifiuto di sottoscrivere quello che è stato detto in passato a proposito dell’umanesimo, di una maggiore finezza psicologica dei nostri autori, di una “ricerca dell’uomo” (qualunque cosa voglia dire) e cose simili. Ogni scrittore deve regolarsi come crede meglio. E poi, uffa, questi argomenti annoiano! (Ma vengono ripetuti da …nt’anni con invidiabile costanza.)

Sosio: Non penso sia una questione di tematiche o di forme narrative. Certo, sono un po' ridicoli i racconti italiani con protagonisti che si chiamano John e Jack. Al di là di questo, il discorso si fa difficile; nel giallo, per esempio, la forte identità italiana aiuta il lettore a immedersimarsi di più nel racconto, ma il lettore di gialli o di thriller è molto meno immerso nel genere di quanto non sia il lettore di fantascienza, spesso è occasionale. Il lettore di fantascienza quasi sempre è un appassionato, uno che vive di pane e science fiction; il fatto di trovarsi di fronte a qualcosa che si distacca decisamente dalla fantascienza anglosassone, alla quale il lettore è abituato, finirebbe per risultare controproducente. A meno che non si giochi con molta intelligenza: penso per esempio ai romanzi di Fabriani e alla sua agenzia Ucci, scritti con stile e ritmi decisamente americani, ma iniettati di italianità, insieme a una buona dose di humor.

 

  1. Quali sono a vostro parere gli scrittori di fantascienza che più hanno influenzato il mondo fantascientifico italiano? E quali, tra essi, hanno avuto un influsso maggiormente positivo?

Vegetti: Fra gli stranieri certamente Verne ed in misura minore Wells. Ma non possiamo dimenticare gli autori dell’Età d’Oro: Asimov, Heinlein, Clarke. Fra gli italiani Salgari, Aldani, Rambelli (nel bene e nel male), Sandrelli, Falessi e Malaguti. Aggiungerei anche Lippi che si è sempre sforzato di tenere aperto agli italiani. Un caso a parte Viviani, che come editore ha fatto moltissimo per la fantascienza italiana.

Lippi: In passato penso Lino Aldani, soprattutto, e Vittorio Curtoni attraverso la sua opera complessiva di autore, curatore di collane e traduttore. Oggi forse Valerio Evangelisti, che però non scrive esattamente fantascienza.

Malaguti: Bene, dividiamoli nel tempo: dagli anni '50 agli anni '70, ovviamente, Matheson, Brown, Clarke e Pohl. Successivamente, Dick, la Brackett, Andre Norton, e per una certa parte circoscritta, William Gibson. Poi ci sono i seguaci di Stephen King, i maniaci di Frank Herbert, gli adoratori di Robert Heinlein. A giudicare dai risultati, chi ha tentato di seguire le mode o gli autori maggiori raramente ha ottenuto risultati apprezzabili. Lo ripeto: l'imitazione è quasi sempre negativa. Lo scrittore che può emergere è quello che legge tutti gli altri, e poi imita solo se stesso.

  1. Perché il mondo del fantastico in Italia non riesce a produrre veri e propri best seller, fatta eccezione per i noti Evangelisti e Manfredi?

Altomare: . Prima di tutto perché non ci credono gli editori. Un best seller va ‘spinto’, mentre tutta la programmazione italiana è lasciata a se stessa e a pochissima pubblicità per la maggior parte in siti specializzati seguiti da lettori che già acquistano libri di autori italiani. La seconda ragione è che si continua a etichettare la produzione italiana. Ho fatto una piccola prova. Durante un incontro tra vecchi amici (una decina) ho portato alcuni dei miei libri per regalarli. Quando li ho presentati mi hanno chiesto: di cosa trattano? Leggende popolari, fantastico, humor, fantascienza. Per non farla troppo lunga, quelli di fantascienza me li sono riportati indietro. Insomma, il fantastico in generale viene accettato, ma la fantascienza no. Allora lasciamo perdere le etichette, altrimenti ci ingabbiamo da soli.

Montanari: Perché in Italia non si investe sul best-seller, nel senso che non si fa e non si spende nulla per crearlo. Il best-seller non è solo un libro accattivante nei contenuti, è anche un libro supportato da diverse forme pubblicitarie che lo fanno conoscere, che fanno sapere al pubblico che può piacere. Alla base delle vendite, soprattutto letterarie, c’è la curiosità e la curiosità si anima attraverso il “movimento”. Il libro è come un fantasma, se non fa scompiglio, se evita le apparizioni, se sta zitto e si limita a star impilato su una colonnina in libreria, sarà difficile che qualcuno lo noti (a parte qualche medium di passaggio).

Sosio: I best seller sono per loro natura delle eccezioni, e il fantastico italiano qualcosa che ha venduto bene lo ha prodotto; non penso solo a Evangelisti o Masali, ma anche, per esempio, ad Avoledo per restare vicini alla fantascienza. Se si scende nel campo del fantasy però gli esempi lievitano: basta citare Licia Troisi, Pierdomenico Baccalario, Roberta Rizzo, ma ce ne sono altri. Forse è solo la fantascienza vera e propria che non produce best seller, ma d'altra parte in Italia non vendono molto neppure gli autori stranieri.

Lippi: Non credo che il fantastico interessi molto la gente comune, in questo momento, se non per le ragioni sbagliate. Vanno a vedere a frotte i film di effetti speciali e leggono i cicli fantasy, quello è per loro il fantastico. La fantasy edulcorata produce bestseller, ma non è fantastico che offra un’alternativa.

Vegetti: Gli editori non ci credono nella fantascienza. Per fare un best seller occorre che l’editore investa. Poi ci sono i successi per caso. Ma sono le eccezioni.

 

  1. Secondo voi l’assioma: “il lettore italiano legge poco e quando legge non legge fantascienza” risponde al vero o è un luogo comune?

Malaguti: È allo stesso tempo un fatto e un luogo comune. In Italia la lettura non è praticata come in altri paesi, è vero. Se guardiamo però le statistiche relative a dieci o vent'anni, troviamo che le opere di fantascienza, sia pure attraverso molteplici edizioni e riedizioni, sono quelle che alla fine risultano lette assai più di opere che durano lo spazio di un mese o di un premio letterario. La percentuale di chi legge, oggi, tra i giovani, a esempio, non è mutata negli anni. Se ci rendessimo conto di quanti assiomi sono basati più sul capriccio del momento che su dati reali…

Vegetti: Banale ma vera. I lettori di fantascienza sono diciamo 10.000; a volte leggono anche altro. I genitori hanno la strana idea che i libri costino. Ed i ragazzi si adeguano.

Sosio: Indubbiamente oggi si legge molto meno di quanto accadesse una volta. È anche indubbio che oggi la fantascienza non è un genere di moda, quindi la legge solo uno zoccolo duro di appassionati. Prima o poi arriveranno nuovi cicli di fortuna della fantascienza.

Lippi: Dicono che legga poco, ma allora come mai ogni anno si producono quintali di nuovi titoli? Che non legga fantascienza, o ne legga poca in questo momento, mi pare evidente, anche perché l’offerta degli editori è bassissima. Se provassimo ad aumentarla?

Altomare: E' senza dubbio vero ma perché, come detto, continuiamo a etichettare la nostra narrativa, ne ho già parlato prima. Il lettore italiano ha solo bisogno di buona narrativa, di qualsiasi genere (e sono d’accordo con De Turris che sostiene la fine del genere’ quale diversificatore della narrativa). Ho partecipato a concorsi ‘normali’ con racconti fantastici e molti li ho vinti. Le giurie non facevano differenza di genere, hanno soltanto premiato un buon racconto.

Montanari: Luogo comune. Chi legge poco legge davvero poco (se arriva a un libro all’anno è già un traguardo), non può quindi essere definito “lettore”. Il lettore italiano legge, magari non arriva a dieci libri l’anno, ma gli piace leggere e se gli viene proposto un libro di fantascienza non lo disdegna: è un libro, potrebbe piacergli, potrebbe divertirsi quindi…“perché no?” Il vero lettore sa che un libro è una questione di emozioni, sa che un libro è la storia che narra e non il contesto in cui viene proposta.

  1. Oltre quella letteraria, in quale altra forma si esprime meglio, a vostro parere, la fantascienza?

Brambilla: Il fumetto e il cinema d'animazione sono media perfetti per fare fantascienza.

Lippi: Nei fumetti e nel cinema.

Montanari: Nelle serie televisive. Rispetto al cinema infatti, la serie televisiva ha possibilità spazio-temporali maggiori, quindi ha l’opportunità di sviluppare, raccontare, spiegare e mostrare tutte le sfaccettature di una storia fantascientifica e dei personaggi che la abitano. Un approfondimento riservato, nella sua completezza, alla televisione e che il cinema riesce a proporre solo attraverso la realizzazione di sequel e prequel, e comunque non con la stessa efficacia.

Malaguti: Per circoscrivere la questione al nostro paese direi che la forma migliore e il maggiore apporto dato dai nostri artisti alla sf in generale sia relativo alle arti figurative. Da Caesar in poi, i nostri artisti, o quelli maturati in Italia, sono sempre stati tra i migliori del mondo.

Vegetti: Certamente i telefilm.

Altomare: Se vogliamo restare in Italia ci sono degli artisti formidabili, a cominciare da Brambilla e proseguendo per la Cesaroni, ma l’elenco sarebbe troppo lungo.

Sosio: A mio avviso certamente la fantascienza televisiva. Ovvio, ci sono grandi film e ci sono fumetti straordinari. Facendo un confronto tra tv e cinema, noto che in generale i film tendono a doversi rivolgere a un pubblico troppo generalista e quindi finiscono per semplificare il messaggio (spesso fino a livelli sconfortanti). Viceversa la serie televisiva punta a un pubblico ristretto, fedele, e ha tutti gli spazi per approfondire il discorso. Naturalmente il gioco ha le sue regole; il telefilm prodotto per il grande network dovrà cercare di restare in gioco mantenendo un’audience elevata, e non sempre questo è possibile senza danneggiare la qualità del prodotto. Il telefilm per la tv via cavo avrà più libertà ma meno soldi a disposizione. Una limitazione che non ha impedito la realizzazione di un capolavoro come Battlestar Galactica.

  1. Quanto è importante il contributo del fandom elettronico (webzine, portali informativi, ecc…) al mondo della fantascienza italiana?

Sosio: Caspita, penso che sull’argomento ci si potrebbe scrivere un libro, e bello grosso. Vediamo di identificare alcuni punti base. Mi sembra evidente che oggi come oggi la gran parte della comunicazione avviene in rete. Ci sono ancora fanzine stampate, convention, tutte cose bellissime e meritorie, ma è chiaro che il grosso degli appassionati di fantascienza vive di forum, di mailing list, di blog. Le stesse webzine ormai danno l’idea di qualcosa appartenente al passato. Non è necessariamente un bene. Le riviste su carta o le riviste online come Delos hanno ancora la possibilità di offrire contenuti molto più approfonditi di quelli che normalmente offrono i blog. Ma i nuovi modi di comunicare contrappongono vantaggi di tipo diverso. Forse in Italia quando si pensa al fandom su internet la mente va subito a Delos (che da tempo non è neanche più attività amatoriale) o a webzine come Continuum. Ma il fandom su internet è qualcosa di enormemente più vasto e che ormai difficilmente si può cogliere con un solo sguardo. Questo perché mentre una rivista, una fanzine o una webzine si occupa di un argomento specifico - fantascienza, per dire - un blog si può occupare di molti argomenti diversi; troverai quindi post di fantascienza su migliaia di diverse pubblicazioni online, che toccano questo argomento solo occasionalmente. Poi c’è l’altra faccia della medaglia: aggregarsi in rete è così facile da rendere possibile l’atomizzazione delle passioni. Per cui, se negli anni settanta facendo un club cittadino cercavi di radunare tutti quelli che in un modo o nell’altro erano interessati al fantastico, oggi in dieci minuti puoi mettere in piedi un forum per gli appassionati di un singolo determinato romanzo o film o serie televisiva, anche la più strana, magari mai vista in Italia, e in pochi giorni avrai radunato una piccola ma significativa comunità. Un po’ come è accaduto per la fantascienza stessa, il fandom è apparentemente moribondo, ma in realtà non è mai stato un fenomeno così vasto.

Brambrilla: Può servire molto a divulgare le tematiche fantascientifiche oltre che a mettere in collegamento le persone che lavorano nel settore, a creare connessioni e ad approfondire le conoscenze su tutto quello che si desidera... Certo conoscere l'inglese è basilare ma se si vuole scoprire qualche cosa su un libro, film, autore in rete si trova tutto.

 

Vegetti: Non saprei. La qualità del fandom elettronico mi pare modesta. Appena si alza un po’ fuori, l’appassionato è subito arruolato. Manca una formazione, una costanza, in genere, fortemente presente in altri paesi. Mancano i progetti comuni ed anche iniziative importanti dipendono troppo dai singoli.

Altomare: Credo sia vitale. Non lo amo molto, forse perché sono costretto a stare dieci ore al giorno al computer e pensare di andare a leggere qualcosa 'fuori' dal mio orario di lavoro al computer, mi dà i brividi, ma in un momento in cui la lettura è negletta, credo che si deve percorrere le altre strade più frequentate.

Malaguti: Purtroppo il pubblico letterario che naviga in rete regolarmente è ancora intorno al 15% del totale. Fatto salvo questo dettaglio, direi che l'avvento del web ha tolto di mezzo un sacco di cartaccia e ha permesso una varietà di proposte e di idee che la fanzine cartacea, che aveva comunque bisogno di un minimo di spese per esistere, non poteva permettere.

Montanari: È molto importante, soprattutto se si pensa che buona parte dei navigatori di Internet sono giovani, che durante la navigazione si scoprono nuovi mondi -i portali informativi-, isole fantascientifiche -webzine- sui quali altrimenti forse mai approderebbero. Per chi invece ha già viaggiato in questi mondi, il fandom elettronico è un ottimo punto di riferimento.

  1. Anche la fantascienza televisiva in Italia non ha mai avuto un grande successo, restando spesso e volentieri in posizione di ripiego nelle classifiche dell’Auditel. Secondo voi da cosa dipende questo?

Lippi: Mah, forse dal fatto che lascia molto a desiderare.

Brambilla: L'Auditel, ah ah ah, ma esiste ancora? La televisione pubblica (nel senso di non a pagamento) è troppo ottusa e retrograda... ormai chi segue una serie lo fa sul satellite, si compra i dvd dall'estero o si scarica gli episodi dalla rete sotto titolati perfettamente in italiano. Io adoro Lost che per puro caso è arrivato perfino sulle reti pubbliche (forse perchè si svolge su un'isola... più che famosa infame) ma altre serie meravigliose tipo Battlestar galactica o Firefly (x citarne 2 a caso) arriveranno tra anni se mai arriveranno doppiate da Magalli... No grazie! E poi forse ci sono troppi concetti profondi e complessi nelle serie fantascientifiche, tematiche che potrebbero far avere un pensiero indipendente (e qualche dubbio) al povero spettatore ...e sicuramente si vedono troppo poche " tette e culi" per interessare alle reti TV del nostro bene amato Paese. Le poche che passano vengono spostate lungo il palinsesto per far spazio a altri programmi se non addirittura eliminate e comunque spesso i dialoghi e le scene sono tagliate, riviste e corrette!

 

Malaguti: Ma qualcuno ha visto, da Andromeda in poi, la produzione fantascientifica circolante in Italia? E ricordando che le serie hanno un pubblico fedele ma di nicchia, e che è sempre mancato il fenomeno di traino, ci meravigliamo dell'audience ridotto? Mi risulta che quando la TV ha passato film come Guerre stellari o E.T., l'audience è stata più che soddisfacente.

Montanari: Torno a una delle risposte sopra, dove affermo (per esperienza diretta e non per sentito dire) che il mondo culturale italiano ha una visione della fantascienza stereotipata che limita la capacità di capirla, di conseguenza il pubblico non viene aiutato a comprenderne gli assiomi, i paradossi, non viene invogliato a tradurne il linguaggio, il genere diviene quindi “difficile” e il difficile spesso si traduce in noia. Aggiungerei che buona parte degli spettatori, e più che mai quelli televisivi, non conoscono, non usano (neanche istintivamente), la “sospensione dell’incredulità”. Decine di volte ho sentito dire, parlando di un film o di un telefilm fantascientifico: «che stupidaggini, queste sono cose impossibili!» A questo punto la somma di: impossibile + incomprensibile, non può che portarmi al seguente risultato: = inguardabile. Manca una vera e propria abitudine alla fantascienza.

Sosio: Certamente è dovuto al fatto che in Italia fino a non molti anni fa c’erano solo canali generalisti. La fantascienza è un genere di nicchia, anche negli Stati Uniti. Quando in Italia Star Trek The Next Generation andava in onda su Italia 1, in USA andava in onda sui circuiti (che sarebbe come dire i nostri Odeon o Cinque stelle). Anche in USA sono rarissime le serie fantastiche di successo sui network. D’altra parte, da quando c’è Sky - e ora Sci Fi sul digitale terrestre - le serie di fantascienza vanno benissimo anche da noi. Conosco un’infinità di gente - non appassionati di fantascienza - che sbava dietro a Battlestar Galactica, che non è certo una serie particolarmente facile e alla portata di tutti. Questo grazie a Fox, o se vuoi grazie a internet e alla possibilità di scaricare le registrazioni di quello che va in onda oltreoceano.

Vegetti: Carenza di mezzi. Qualche raro esempio l’abbiamo avuto. Parlo dei tentativi italiani. Per il resto non amo molto le serie fantascientifiche; le trovo banali e ripetitive. E senza anima.

  1. Come mai il cinema italiano non è riuscito a partorire un film di fantascienza “decente” dai tempi di Nirvana di Salvatores?

Montanari: Ma il cinema italiano sa fare fantascienza? Forse una volta, negli anni ’50 e ’60 ma stiamo parlando di cinquant’anni fa e non è più il caso di andare a cercare qualcosa che il nostro cinema ha voluto perdere. Se in Italia si ignora la fantascienza letteraria, figurarsi quella cinematografica che prevede investimenti di gran lunga superiori. La fantascienza non si considera e, pur avendo gli esempi eclatanti dei film altrui che arrivano sul grande schermo e incassano cifre astronomiche al botteghino, non la si ritiene all’altezza. Ma credo che alla fine sia solo una questione di esame delle proprie capacità: non si investe su qualcosa che non si sa fare. E se qualcuno pensa che io stia esagerando, provate a porvi un paio di domande: a quale regista italiano fareste dirigere un film di questo genere? E a chi lo fareste interpretare? Perché alla fine subentra anche questo problema: in Italia non esiste un criterio di selezione che si basi sulla qualità. Esiste una selezione che si basa sull’immagine esteriore, la superficialità e la più assoluta inutilità (date una occhiata ai personaggi che circolano in televisione e che immancabilmente approdano nel nostro cinema, e capirete di che cosa sto parlando). Per fortuna che l’Italia investe nei film “panettone” e non nella fantascienza, farebbe solo opera di svilimento del genere e non certo di promozione.

Altomare: Credo sia soltanto un problema di costi. Un film di fantascienza oggi dev'essere ricco di effetti speciali che costano un mucchio di soldi. Negli USA si può rischiare perché, anche quando non va bene, si riesce a compensare le perdite essendo molti i potenziali spettatori. In Italia, i costi sarebbero uguali (se non maggiori) ma i potenziali spettatori di gran lunga inferiori, quindi il rischio è altissimo.

Brambilla: Per carità... secondo me è meglio così, visto il livello medio delle produzioni nostrane chissà quali mal di pancia ci stiamo risparmiando.

 

Malaguti: Perché, Nirvana viene considerato un film di fantascienza decente? Scherzi a parte, il problema possono spiegarlo gli operatori di cinema molto facilmente: distribuzione, produzione, mentalità. Tutti i lavori fantascientifici interessanti si scontrano contro la convinzione dei distributori che il film di fantascienza non può essere italiano. Per vendere all'estero lo stesso Margheriti, con i suoi prodotti commerciali, doveva firmarsi Anthony Dawson. E Sergio Leone non prese in considerazione negli anni '70 una sceneggiatura che io ho letto e che anticipava quasi esattamente Indiana Jones. Così è se vi pare. E anche se non.

Lippi: Lippi: Il cinema italiano non investe quasi più in niente, l’avete notato? Si fanno film prodotti con gli aiuti di stato, cinepanettoni e poco più. E poi il cinema degli effetti speciali, qui da noi, non è mai sbarcato.

  1. Ultime due domande. La Prima: quale è stato il contributo più importante che pensate di aver dato al mondo della fantascienza italiana?

Montanari: Sono solo al secondo romanzo, se pensassi di aver già dato un contributo al mondo della fantascienza dovrei autocondannarmi per eccesso di vanità ed egocentrismo. Però, se tra qualche anno decideste di propormi una seconda intervista non dimenticatevi di rifarmi questa domanda. Forse, allora, potrò rispondere (almeno… me lo auguro!).

Altomare: In generale con la fantascienza c'è stato uno scambio a mio vantaggio, nel senso che ho dato di meno ad essa di quanto essa ha dato a me. Io ho dato la mia passione e la mia narrativa, ma la fantascienza mi ha dato incontenibili orizzonti. E la possibilità di mettere a frutto forse l’unico mio pregio, la fantasia. Se poi dobbiamo parlare della fantascienza italiana, be'!, ho portato la fantascienza italiana ovunque andassi, ne ho parlato in convegni, manifestazioni e incontri specie se non di genere, ho letto e pubblicato racconti di FS ovunque ne avessi occasione, a cominciare da La Vallisa, il quadrimestrale di letteratura di cui sono uno dei redattori. Ho persino vinto concorsi 'normali' con racconti di fantascienza. Insomma, ho approfittato di qualsiasi occasione per sostenere la fantascienza italiana. L'ho usata persino come sale nelle cene tra amici per rendere più saporite le nostre chiacchiere.

Brambilla: Spero che le mie immagini abbiano incuriosito e attratto nuovi lettori verso questo genere meraviglioso, divertente e spesso sottovalutato.

 

Malaguti: Boh. La continuità di un modo globale di vedere, al di fuori delle mode contingenti, delle conventicole e delle correnti, la fantascienza come elemento letterario nel tempo. Il resto lo lascio giudicare a chi mi ha seguito.

Sosio: Moi? Be', certamente l'avanguardia tecnologica, e in particolare quello che abbiamo fatto in rete. Nel 1995 io e Luigi Pachì abbiamo presentato, all'Italcon di San Marino, internet e le possibilità di pubblicare e promuovere la fantascienza in rete. Si raccolse un vasto pubblico di ben quattro persone: il successo di quell'iniziativa ci ha spronato ad andare avanti! Pochi anni dopo nasceva Fantascienza.com, un'esperienza unica nella storia della sf in Italia per la sua capacità di aggregare il settore e di promuovere il genere. Quei quattro interessati sono diventati duecentomila persone che visitano il sito ogni mese, numeri di vari ordini superiori a quelli delle pubblicazioni stampate. Ultimo appunto vanitoso per dire che un sito grande e strutturato come Fantascienza.com non ha analoghi in nessun paese europeo.

Vegetti: Dovrei dire il Catalogo, ma penso che il fatto di aver mantenuto i contatti fra centinaia di appassionati si più importante. Decideranno i posteri, temo.

Lippi: Non so, io lavoro in questo campo da trentadue anni e dovrebbero essere gli altri a tirare i bilanci. Personalmente, prima dell’esperienza di “Urania” ricorderei volentieri il decennio in cui ho lavorato per gli “Oscar” Mondadori.

  1. Concludendo una domanda provocatoria: esiste una fantascienza italiana?

Montanari: Forse sì, ma c’è sempre un forse, probabilmente perché viene esportata a fatica, perché rimane una letteratura di nicchia in quanto la nostra cultura, molto saccente e “poco culturale”, non la considera letteratura. Se la fantascienza italiana ha dei segni particolari che la distinguono dalla fantascienza degli altri paesi non saprei dirlo, di certo non le mancano la creatività e una appropriata inventiva, connotati che la rendono “fanta(stica)”, determinando sempre e comunque la sua appartenenza a questo genere letterario.

Brambilla: Non saprei, esistono autori italiani che scrivono ottime cose di genere fantascientifico: personalmente ammiro molto il lavoro di Dario Tonani, Giovanni DeMatteo e Paolo Aresi e sono da sempre un fan di   Evangelisti.

 

Sosio: Guardandola con un occhio “professionale”, quindi valutando gli autori che pubblicano romanzi o che sono presenti con frequenza sul mercato, credo che la risposta sia no. Gli autori sono troppo pochi e troppo diversi per fare delle statistiche e molto diversi tra loro. Non esiste nel mondo della science fiction italiana quello che esiste nel mondo del giallo, anche se ogni tanto si intravvede un tentativo. Osservo con grande interesse da questo punto di vista il lavoro di Sergione Altieri, che sta dando sempre più spazio agli autori italiani sulle pagine delle collane da edicola di Mondadori, cercando di riproporre più volte gli stessi autori, proprio per creare una base su cui lavorare. E poi trovo affascinante il fenomeno del Connettivismo, che sebbene abbia confini un po' sfumati rappresenta una novità, un vero e proprio manifesto letterario autoctono come forse non si era mai visto.

 

Vegetti: Esiste ed ha una lunghissima tradizione. Nel dopoguerra gli italiani hanno avuto pochissimo spazio. Ma adesso sembra che la situazione stia migliorando.

Lippi: Esiste, naturalmente. Con le sue difficoltà e all’interno di un mercato piccolissimo, ma esiste.


L’etica Futurista di Star Trek: L’etica Medica

 

Sarebbe giusto osservare che Star Trek se non fosse un serial di fantascienza, potrebbe benissimo essere scambiato per uno dei tanti telefilm “di corsia” presenti nelle nostre TV. Tante e tali, infatti, sono le implicazioni mediche che appaiono nelle storie. I dottori, poi, che hanno contraddistinto tutte le serie, sono personaggi di grande spessore e rilievo, tanto da essere considerati, non a torto, tra quelli più accattivanti. Chi non ricorda Leonard “Bones” McCoy? O Beverly “sono innamorata del capitano” Crusher? E ancora Julian “mi piace l’avventura” Bashir? Per finire con l’incredibile MOE, il medico olografico di emergenza della Voyager? Quattro tipi straordinari, ognuno dei quali ha avuto a che fare con più di un caso di coscienza.

Leonard McCoy, per sua stessa ammissione, è “un semplice medico di campagna” che viaggia, però, su un’ astronave a velocità di curvatura. Sembrerebbe un non senso, eppure è questo quello che genera l’incredibile alchimia del personaggio; il quale, pur di fronte ad alieni, malattie impossibili, morti apparenti, applica ad ogni cosa il buon senso che gli deriva dall’essere, appunto, un “semplice medico di campagna”, scoprendo, miracolosamente, che questo approccio risulta quasi sempre vincente.

Il suo rispetto per la vita travalica il semplice mondo biologico, per diventare qualcosa di più profondo, che coinvolge l’essere fin dentro la sua personalità: “Nella nostra Galassia ci sono con ogni probabilità tre milioni di pianeti simili alla Terra, e nell’Universo ci sono tre milioni di milioni di Galassie simili alla nostra; eppure ogni essere umano è unico! Capitano, non uccida quello di nome Kirk” (TOS: La Navicella Invisibile, ndr.).

Innanzi alla semplice equazione che vediamo in “Viaggio a Babel”, dove Spock è l’unico che può salvare suo padre Sarek dalla morte, anche a costo della propria vita; McCoy poco si cura di rischiare la vita di entrambi per salvare l’anziano ambasciatore vulcaniano. E lo fa, si badi bene, non per una malcelata forma di pietismo, ma perché sa che l’eventuale morte di Sarek per causa della “rigidezza mentale” di Spock, causerebbe a quest’ultimo un rimorso di coscienza senza pari. I meccanismi interni del complesso rapporto paziente-medico-parenti sono a lui ben conosciuti, alla stregua di un qualunque medico di famiglia, e questa conoscenza diventa un punto di forza nella sua professione di medico di bordo dell’Enterprise.

Quando poi è lui ad essere paziente, nello straordinario episodio “Ho Toccato il Cielo”, in cui si scopre soffrire di una malattia incurabile, McCoy applica anche a se stesso i protocolli di “buon senso” che lo contraddistinguono per tutta la serie. “Affronterò meglio la malattia se nessuno lo viene a sapere e potrò continuare il mio lavoro”, dice all’incredulo capitano Kirk. E quando gli si presenta l’opportunità di vivere i suoi ultimi giorni insieme ad una splendida donna che ha appena conosciuto ma di cui si è innamorato, anche qui non si tira indietro: abbandona tutto, la nave, gli amici e il lavoro, pur di stare insieme con lei. Dopotutto, l’uomo è più importante della sua malattia, della sua stessa vita.

Nella seconda emanazione del mondo creato da G. Roddenbberry, troviamo a bordo dell’Enterprise una donna facente funzioni di medico di bordo. Beverly Crusher con un passato tragico, la morte del marito sotto il comando di Picard suo nuovo capitano (innamorato di lei, aggiungiamo, ndr.), e con un figlio sopra le spalle. La Crusher ha una personalità forte ma discreta; non è un medico di campagna: è emancipata; non odia la tecnologia come Bones (il quale ha paura anche del teletrasporto! Ndr.), ma anzi ne fa un largo e circostanziato uso. Ma , sicuramente, il filo conduttore di tutti i medici a bordo di Star Trek, non la ignora e, per continuare con la similitudine, la imbriglia ben bene.

Nell’episodio “Questione di etica” (Star Trek TNG, ndr.), si trova appunto ad affrontare una delicatissima questione morale: è giusto rischiare la vita di un paziente che non è in pericolo di vita, per permettergli di camminare dato che è rimasto paralizzato? Fino a che punto può rischiare la medicina? Fino a che punto si debbono protrarre le cure? E’ giusto sperimentare su un paziente una cura o una procedura chirurgica se il paziente non corre nessun pericolo di morire? I temi sono forti, e la risposta che ne danno gli sceneggiatori (in questo caso il grande Ronald D. Moore del recentissimo Galactica, ndr.) è intrigante. Per il Klingon Worf la paralisi è una condizione appena più su della morte e, nella sua razza, presuppone un suicidio rituale in quanto l’essere infermo non permetterebbe di compiere il proprio dovere di guerriero. Ecco perché Worf sceglie di sottoporsi ad una rischiosissima e mai testata procedura chirurgica proposta da una collega della dottoressa Crusher; quindi la sua etica di paziente è salva. L’etica della dottoressa che interviene, però, viene fortemente criticata dalla Crusher e censurata nel suo comportamento ai limiti della legalità medica. La condanna che ne deriva è netta: la sperimentazione di una medicina o di un protocollo medico non può essere fatta a scapito dei pazienti.

Passando a Deep Space Nine troviamo il medico più giovane tra tutti quelli apparsi in Star Trek: Julian Bashir. Riguardo la questione etica, Bashir si trova nell’incredibile condizione di essere egli stesso una questione etica. Infatti, egli è il frutto della manipolazione genetica, severamente vietata dalla leggi della Federazione. Quello che gli autori di Star Trek si chiedono è semplice: fino a che punto si può spingere la manipolazione genetica? Fino a che punto si può intervenire sui geni di un bambino o su un essere adulto? E’ giusto creare una razza di uomini superiori o comunque diversi, solo grazie alla manipolazione genetica?

Il tema è affrontato in DS9 in ben 3 episodi (Il Dottor Bashir, suppongo; Probabilità Statistiche; Crisalide, ndr.). Qui si evidenzia l’estrema condanna che la Federazione dei pianeti fa della manipolazione genetica (addirittura il padre di Bashir finisce in prigione! Ndr.); ma, nello stesso tempo, si evidenzia come coloro che sono stati sottoposti a tale manipolazione vengano costantemente seguiti e, nel caso, curati, dalle strutture mediche federali. Bashir che, a suo modo, rappresenta un caso unico di potenziato genetico non recluso e/o estromesso dai suoi compiti nella società, funge da tramite tra il mondo dei geneticamente modificati e quello dei normodotati. Una funzione che il buon dottore percorre fino in fondo, conscio della delicatezza del compito, sempre in bilico tra la condanna (che la sua coscienza di medico gli detta, ndr.) per la manipolazione genetica e il suo essere (fino in fondo e senza compromessi, ndr.) un uomo geneticamente modificato. Quel che risulta è una tensione narrativa di straordinaria valenza, che cattura lo spettatore fino alla catarsi.

Sempre Bashir, in uno degli episodi più belli della terza stagione: La Scelta di Bashir, affronta un altro dei più importanti problemi etico/medici di Star Trek. Salvare un essere umano può costare allo stesso la perdita della sua identità di uomo? Julian può salvare un paziente dalla morte, ma per farlo deve cancellare per sempre la sua memoria, le sue emozioni, la sua personalità. Messo di fronte a questa scelta decide di farlo morire. Non si può salvare il corpo di un uomo ma perdere la sua vita; non si può salvare la vita di un uomo e perdere la sua essenza, vale a dire tutto ciò che lo rende unico, diverso dagli altri. Bashir compie questa scelta senza tentennamenti, interpretando il “non farai del male” del giuramento di Ippocrate nel senso più ampio e vero: quello di salvaguardare lo spirito dell’uomo anche a scapito della sua sopravvivenza fisica.

E’ singolare come gli autori di Star Trek abbiano deciso di far prendere decisioni etiche di tale portata al più giovane dei medici trekker. Bashir, infatti, proseguendo nella sua crescita come uomo e come medico, passa anche per decisioni che coinvolgono, in tempo di guerra, la scottante questione di come e quando utilizzare armi di distruzione di massa. Negli ultimi episodi della 7^ stagione, si scopre, infatti, che la Flotta Stellare (la sezione 31, in verità, ma con il bene placido della flotta, ndr.) ha volutamente infettato con una malattia incurabile Odo (il mutaforma, ndr.) per distruggere tutta la sua razza. E’ plausibile servirsi di un genocidio per vincere una guerra? Bashir lotterà con tutte le sue forze per salvare Odo, confermando in modo ineluttabile che anche la guerra ha i suoi limiti etici, e che il genocidio non rientra tra questi. “Inter arma enim silent leges”, durante la guerra le leggi tacciono, diceva Cicerone. Una massima che la Flotta Stellare applica pedissequamente pur di sconfiggere il Dominio, ma a cui Bashir (come tutto l’equipaggio di DS9, ndr.) si oppongono con tutta la forza della loro etica e della loro moralità.

In “Una Difficile Cura”, nella settima stagione di Voyager, troviamo l’MOE, il medico olografico di emergenza, innanzi ad un quesito etico che le sue subroutine (come le chiama lui, ndr.) non hanno difficoltà a risolvere in un nanosecondo. In una società dove il servizio sanitario nazionale è distribuito in base al reddito e all’importanza sociale dei pazienti (più sei ricco e importante più ti curo, più sei povero e socialmente irrilevante, meno ti curo), l’MOE si ribella e decide di dispensare le sue conoscenze mediche anche ai più deboli. Episodio che fin troppo palesemente mette alla berlina il sistema sanitario nazionale degli Stati Uniti, dove, appunto, rischi di morire se non hai una buona assicurazione; dove, al pronto soccorso, sei destinano in una o in un’altra corsia in base alla tua dichiarazione dei redditi. Tema forte e controverso nella società americana, su cui molti presidenti e candidati presidenti, hanno perso o vinto elezioni. Gli autori di Star Trek, comunque, ne danno una soluzione senza appello: tutti, ma proprio tutti, hanno il diritto di essere curati. Pensavate forse ad una soluzione differente?

L’etica Futurista di Star Trek

 

La complessità del mondo creato da Gene Roddenberry non sta solo nell’incredibile intreccio narrativo, nella capacità di plasmare personaggi che interagiscono magnificamente tra di loro, o anche nell’immaginare “strani e nuovi mondi”; questo, invero avrebbe dato all’universo di Star Trek solo due delle dimensioni che lo rendono così completamente tridimensionale. La terza dimensione è quella dell’etica. Lo spessore che ogni minuscolo granello di sabbia trekker possiede è quello di una coerenza interpretativa della realtà senza pari in tutto il palinsesto televisivo degli ultimi cinquanta anni.

Se iniziamo dalla plancia della prima Enterprise (quella “senza a, b, c, d, ecc…” per intenderci, ndr.) apparsa nella Serie Originale, basta una semplice foto di gruppo per aprire la nostra discussione a mille considerazioni. In pieno rigurgito razzista (siamo negli USA nei pieni anni Sessanta, ndr.) ci troviamo di fronte a una accozzaglia multietnica di personaggi: il bellimbusto americano, il gentiluomo del sud, l’alieno razionale, l’asiatico istintivo, il teddy boy russo, lo scozzese pimpante, la donna di colore africana. Tutti con pari dignità, tutti nella stessa, chiamiamola, barca. Eppure, all’epoca le donne avevano limitate capacità di comando, non occupavano nessuno dei posti chiave della società americana; gli uomini di colore, poi, erano ancora ghettizzati; e l’Africa? Solo un pallido ricordo colonialista. Ma Gene mette una donna di colore africana in una posizione di responsabilità e comando. I russi? Beh! Erano oltre la cortina di ferro. Ma Roddenberry, stimolato all’uopo dalle proteste che venivano da Mosca (almeno così si dice, ndr.) non si lascia pregare e assume il signor Checov in pianta stabile pettinato da Beatles di serie B (dando dignità anche alla protesta giovanile di allora che si materializzava spesso e volentieri con un taglio/non taglio di capelli, ndr.). Gli asiatici? O erano giapponesi (come pare lo sia Sulu, ndr.) ed erano ancora osteggiati dalla maggior parte degli americani per l’allora recente ricordo della II Guerra Mondiale (ne sa qualcosa lo stesso attore che interpreta Sulo, George Takei, la cui famiglia durante la guerra era stata messa in un campo di lavoro dal governo USA, ndr.). O erano cinesi, e quindi comunisti, e quindi avversati dalla maggior parte degli americani. Eppure, Gene non si lascia sfuggire di mettere un asiatico sulla plancia dell’Enterprise. “Statisticamente “, diceva, “la maggior parte della popolazione mondiale è donna e asiatica” (fonte R. Arnold, ndr.), quindi una donna e un asiatico dovevano assolutamente far parte della “sua” avventura nello spazio. Vogliamo parlare poi di Spock, l’alieno? Lo veste dei panni del “demonio” (orecchie a punta, occhi impenetrabili, sopracciglia all’insù, nessuna emozione, almeno così sembra che lo descrivano McCoy e Kirk ne La Mela, ndr.) e quindi, diciamo così, sdogana anche questo stereotipo dimostrando, puntata dopo puntata, che il “demonio” non è poi così brutto come si dipinge. Quindi abbiamo lo scozzese, ubriacone (nell’episodio Con qualsiasi nome sfida un alieno a chi beve di più e vince; nell’episodio di TNG Il naufrago del tempo cerca disperatamente dell’alcool “vero”, e potremmo continuare, ndr.), omaccione di mezza età alla disperata ricerca di un amore ( Dominati da Apollo o Le speranze di Zetar, ndr.) e di comprensione e affetto (Fantasmi dal passato, ndr.). Infine, gli unici due americani della serie che, guarda caso, sono agli estremi della tipologia tipica dell’uomo statunitense degli anni Sessanta, il bullo, gradasso e sciupa femmine (Kirk, ovviamente, ndr.) e il gentiluomo del Sud. Due icone che, lentamente e soprattutto la seconda, sono scomparse ma che allora rappresentavano veramente gli alpha e omega dello spettatore televisivo medio americano.

Ovviamente ciò che Roddenberry realizza nel primo “equipaggio” della sua fulgida carriera televisiva, ribadisce (e in alcuni tratti amplifica) nel secondo gruppo di umani che lui “mette” ad esplorare la nostra galassia. In TNG, apparsa poco più di vent’anni dopo la TOS, fa imbarcare nell’Enterprise un nutrito gruppo di esseri (diciamo umani) che daranno vita a tutta una sequela di intrecci tridimensionali dove l’umanità, la personalità riceveranno spessore dalla coscienza e dalla morale, come nella migliore tradizione trekker. Tra gli uomini del nuovo equipaggio un androide: Data, personaggio che darà vita alla lunga ricerca “dell’essere umano” in tutte le puntate della serie e nei film per il cinema. Quindi, un nemico, un klingon: Worf, che per oltre 11 stagioni ( 7 di TNG e 4 di DS9, ndr.), cercherà un difficile compromesso tra l’essere un guerriero di un popolo che predica l’onore e la battaglia e l’essere un ufficiale della Federazione. Poi un handicappato, un cieco: Geordi La Forge, dotato di protesi e manifestamente impedito, per poi risultare, tra tutti colui che è capace di vedere là dove nessuno ha mai visto prima. E, infine, Picard, uomo dalla gioventù turbolenta, dal carattere timido e introverso, che, quando comanda una flotta stellare, esce fuori tutta la sua risolutezza. Come si vede personaggi a tutto tondo, ognuno dei quali ha un dilemma etico insoluto che si porterà appresso per tutta la sua vita televisiva e che induce lo spettatore a riflettere su argomenti importanti: la diversità, l’handicap, i rapporti sociali, ecc… Potremmo continuare a citare i singoli personaggi che compongono il cast fisso delle altre serie di Star Trek, non lo facciamo perché nella loro creazione Roddenberry non ha messo parola (è morto prima, purtroppo, ndr.); ma i suoi prosecutori non sono stati da meno. Ricordiamo la “terrorista” Kira di DS9 che porta con sè il pesante fardello di una vita vissuta nella violenza; o la costante ricerca dell’umanità di 7 di 9 in Voyager. Tutti personaggi, crediamo, che avrebbero reso orgoglioso il buon Gene della vita propria che la sua creatura aveva assunto.

Ma questo sforzo immaginifico che ha portato Gene Roddenberry alla creazione di una così perfetta macchina interattiva, dove ogni singolo pezzo ha un contraltare con cui litigare, amoreggiare, scherzare, cooperare, nulla avrebbe avuto di buono se non ci fosse stata l’etica della diversità e del rispetto della diversità. Così diversi, agli antipodi (forse Gene è stato troppo ottimista nell’immaginare il futuro dell’uomo, ndr.) del mondo attuale, i personaggi della plancia di Star Trek TOS e di TNG si rispettano e si considerano tutti uguali anche quando la gerarchia militare li distingue. Se un membro sta male, ha dei problemi, tutti gli altri corrono in suo soccorso, si sacrificano per lui, anche fuori dai limiti della logica (ricordate il gioco de “gli interessi di molti valgono più di quelli dei pochi o di uno”, che dopo il salvataggio di Spock dal pianeta Genesis, viene modificato ne “gli interessi di uno valgono più di quelli dei molti”? ndr.) . E’ quindi questo che rende questi caratteri tridimensionali, e del tutto originali nel panorama della Sf televisiva.

L’etica del rispetto reciproco all’interno del microcosmo di una nave stellare, trova la sua naturale universalizzazione nel concetto di IDIC: Infinite Diversità in Infinite Combinazioni. Così come si rispettano i singoli si devono rispettare tutte le infinite diversità del cosmo in tutte le sue infinite combinazioni. Il concetto, leggenda vuole, è stato introdotto da Gene Roddenberry per vendere un po’ di gadget. L’Idic, infatti, è anche una collanina, che Spock dona all’ospite di turno nella puntata La Bellezza è Verità, con appeso un ciondolo che raffigura un triangolo che incide un cerchio. Si racconta che proprio per vendere questo piccolo gadget Roddenberry si sia inventato l’Idic. Fatto sta che, il concetto che sta alla base di questa credenza vulcaniana, è uno tra i più cari ai fan di Star Trek ed uno dei momenti etici più alti della saga. Se si pensa che ancora oggi mal accettiamo le bizze di un vicino di casa o mal digeriamo i modi di fare dei propri familiari (per non parlare degli usi e delle tradizioni di popoli che abitano a poche centinaia di chilometri da noi, ndr.) nulla ci sembra più Utopistico è Irrealizzabile dell’IDIC. Eppure in esso c’è la sintesi di molto del pensiero religioso e filosofico del nostro mondo. Potremmo fare infiniti esempi, da Gesù a Gandhi da Martin Luther King a Buddha, ed ogni esempio sarebbe calzante. L’unica nota stonata è il tempo di realizzazione di questo concetto, perché quattro o cinquecento anni per iniziare a metterlo in pratica ci sembrano francamente pochi.

Ma se l’IDIC universalizza il principio della tolleranza assoluta, Roddenberry non perde di vista quello della tolleranza relativa. Vale a dire il razzismo che nell’America anni Sessanta (come nel nostro mondo, ndr.) imperversava. Già, nel mettere una donna di colore nella plancia dell’Enterprise aveva dato un messaggio importante, ma durante diversi momenti della narrazione non manca di indirizzare stilettate profonde contro l’intolleranza. Ne La Navicella Invisibile (TOS, ndr) Spock riceve ampie “dosi” di odio razziale quando si scopre che i Romulani sono simili ai vulcaniani; un membro dell’equipaggio lo insulta apertamente e lui, fedele alla logica della tradizione vulcaniana non fa una piega: è la ragione, quindi, la risposta più conveniente nei confronti dell’intolleranza? La ragione che manca ai due protagonisti di Sia Questa l’Ultima Battaglia. Chi non ricorda gli alieni bicolore che si odiano l’un l’altro per il solo motivo che uno è bianco dalla parte destra e nero dalla sinistra e uno è bianco dalla sinistra e nero dalla destra? Ci sembra una cosa del tutto assurda e inconcludente che una razza si sia autodistrutta per così poco, eppure il messaggio è semplice, ed è rivolto alla “sua America” che in quel periodo è ancora in preda all’odio razziale. Per confermare tutto questo possiamo citare un altro episodio, ma stavolta di DS9 Lontano, Oltre le Stelle. Roddenberry è morto da un pezzo, ma gli autori di questa magnifica storia immaginano un’America degli anni ‘30/’40 del Novecento, dove uno scrittore di Fantascienza non può essere né nero né donna; dove, anche per pura ipotesi futuribile, non si può immaginare che un nero comandi una stazione spaziale…Il messaggio, anche stavolta è semplice, state attenti è dietro l’angolo, nel futuro un uomo di colore comanderà una stazione spaziale, ma questo è stato ottenuto con il sacrificio di generazioni e generazioni di esseri umani che hanno combattuto per il rispetto reciproco e la parità tra i sessi.

Il rispetto della vita in tutte le sue molteplici forme, così come il concetto di IDIC, è un altro imperativo etico della saga di Star Trek, fin dalla, come dire, ragione sociale dei viaggi dell’Enterprise volti “alla ricerca di nuove forme di vita e di civiltà”. Citare tutti gli episodi che affrontano questo argomento è praticamente impossibile, ci piace ricordarne un paio: Il Mostro dell’Oscurità (TOS, ndr.), La Misura di Un Uomo (TNG, ndr.) e In Carne e Ossa (VOY, ndr.). Il primo è, a ragione, uno degli episodi più belli dell’intera saga. Narra di un essere fatto di silicio, l’Horta, che, per difendere la sua prole, attacca degli uomini in un asteroide minerario. L’intervento di Spock, Kirk e McCoy lo salveranno dal linciaggio da parte dei minatori che cercavano facile vendetta. Il famoso dialogo: “Ha ucciso 50 dei miei uomini”, “E voi migliaia dei suoi figli”, in cui Kirk difende l’operato difensivo dell’Horta che protegge le uova depositate dalla sua specie è manifesto del rispetto della vita. Durante l’episodio ci troviamo di fronte ad uno dei rari casi in cui Spock disubbidisce al suo capitano, perchè questi vorrebbe uccidere l’Horta, mentre il vulcaniano la vorrebbe risparmiare. Alla fine tocca a McCoy con il leggendario “sono un dottore non un muratore” guarire l’essere di silicio dalle sue ferite. Cos’è, dunque, la vita, ci si domanda in Star Trek. E’ pietra (come nel caso dell’Horta, ndr.) ma è anche metallo, ingranaggi e software come nel caso di Data. In La Misura di un Uomo (TNG, ndr.) l’androide protagonista della terza serie targata Star Trek (la seconda è la serie animata, ndr.) deve difendere la sua essenza di essere senziente e per questo vivo, davanti a un tribunale federale che lo vorrebbe relegato al grado di “strumento”. La difesa di Picard è sentitissima fino al verdetto finale che accoglie l’istanza sulla “vita” di Data. Ciò che è vivo è ciò che ha consapevolezza di sé, e Data ha una profonda consapevolezza di se stesso. Continuando su questa falsa riga in Carne ed Ossa, bellissimo episodio doppio della Settima stagione di Voyager si affronta un altro quesito. La vita è pietra (e quindi può essere qualunque altro materiale, ndr.), è meccanismi e software, ma può essere fotoni e campi di forza? Un ologramma può essere vivo. Il personale ammutinamento dell’MOE della Voyager per andare a seguire una nave di ologrammi che chiedono l’autodeterminazione ci dà una risposta in parte ambigua ma eticamente condivisibile: se un ologramma è vivo lo è per autodeterminarsi ma anche per pagare di persona i suoi errori. La vita prevede onori ed oneri, ed uno di questi è la responsabilità per ciò che si compie. Qualche episodio dopo, infatti, sempre in Voyager nell’episodio L’Autore, L’Autore, l’MOE rivendica il diritto di essere l’autore di un romanzo olografico. Secondo le leggi della Federazione, infatti, un autore di un’opera d’arte non può essere un ologramma. Alla fine la sentenza non stabilirà se l’MOE è o non è un essere umano, ma farà di più, sancirà che comunque è un artista ed ha quindi la piena libertà di stabilire se una sua opera può o non può essere pubblicata. La vita è, quindi, per l’etica di Star Trek un insieme di fattori che hanno poco a che vedere con la biologia (nasce, cresce, si riproduce e muore, ndr.), ma più che altro con la coscienza di sé, la capacità di autodeterminarsi, di crescere interiormente e poi, alla fine, anche quella di riprodursi e di morire.

Strettamente legato al concetto di vita sta quello dell’amore e della sessualità. In Star Trek vi sono diversi episodi che affrontano questi temi: da quelli scanzonati e dongiovanneschi che hanno come protagonista Kirk o il più giovane Riker; a quelli più profondi e coinvolgenti che troviamo in TNG (Amore e dovere, ad esempio, ndr.) o in Voyager (la storia d’amore tra Janeway e il suo compagno in Forza lavoro, ad esempio, ndr.). Ma è in DS9 e nell’episodio Riuniti (Quarta Stagione, ndr.) che Star Trek vince tutti gli stereotipi del tema e proseguendo nei concetti già espressi in “Diritto di Essere” affronta il tema della omosessualità, senza mai pronunciarlo. Il fatto che l’omosessualità non venga pronunciata non è, si badi bene, per discrezione, ma per rendere ancor più evidente un semplice e banale concetto “essere omosessuali non significa nulla di nulla: è un modo di essere come un altro”. Spieghiamo meglio accennando alla storia: come i trekker sapranno il popolo dei Trill vive in simbiosi con un essere vermiforme che, ad una certa età, gli viene innescato nel ventre. I Trill umanoidi vivono la vita media di un umanoide, il simbionte può vivere diversi secoli, quindi un simbionte che passa di corpo in corpo trasmette di cervello in cervello tutte le esperienze pregresse che ha fatto in tutte le vite che ha vissuto come ospite di un umanoide. Ma allora, se marito e moglie che si sono amati e poi sono morti, si rincontrassero ospiti di corpi diversi, potrebbero continuare ad amarsi? Secondo la legge dei Trill no. Eppure Jadzia Dax, (donna e che donna, ndr.) protagonista di DS9, Trill, incontra la sua vecchia moglie e la rincontra in un corpo di donna, e scopre di essere ancora innamorata di lei. La geniale intuizione degli sceneggiatori è quella di sostituire il tabù di un rapporto omosessuale con un altro, il tabù dei Trill di non potersi riunire con mariti, mogli, amanti avuti nel passato. Nessuno dei personaggi di DS9 pensa solo per un attimo che Jadzia e la sua vecchia moglie non possano stare insieme perché sono due donne; ma, i Trill presenti nella storia guardano a quella relazione come qualcosa di sconveniente e scandaloso perché riunisce due persone che un tempo erano marito e moglie! Un paradosso che fa sorridere ma che sottolinea ogni società ha i suoi tabù, e come ogni tabù ha le sue illogiche conseguenze. Questo episodio fa coppia con uno più vecchio, di alcuni anni prima intitolato L’Ospite apparso nella Quarta Stagione di TNG. Qui, la dottoressa Crusher innamorata di un Trill maschio, scopre, alla fine dell’episodio, che per quanto ami quell’essere non può amarlo se poi la sua essenza, il suo simbionte, viene trasferito in un corpo di donna. La rinuncia che fa la dottoressa Baverly ammettendo con fatica di “non essere pronta” a tali cambiamenti, è drammatica e sofferta e fa il paio con la passione che invece travolge Jadzia e la sua vecchia fiamma in Riuniti.

Cambiando completamente argomento, parliamo dei rapporti con altri pianeti e altre civiltà. Se è vero che la principale missione dell’Enterprise è quella di andare alla ricerca di nuove forme “di civiltà”, è anche vero che questa ricerca è rigidamente regolamentata. Nella serie classica, infatti, sentiamo parlare di PRIMA DIRETTIVA. Si tratta della “più sacra delle nostre leggi” dirà poi Picard in TNG. Di cosa si tratta? In una parola alle astronavi della flotta stellare e, in generale, ai membri della Federazione Unita dei Pianeti è proibito interferire nella sorte di mondi e pianeti alieni se non si è esplicitamente invitati a farlo. Esiste poi un’estensione della PRIMA DIRETTIVA, che vuole la non interferenza per tutti i mondi pre-curvatura (vale a dire per tutti i mondi incapaci di viaggiare a velocità maggiori della luce, ndr.). Questo concetto è stato alla base di decine di episodi di Star Trek; la sua applicazione e la sua mancata applicazione hanno fornito agli sceneggiatori della saga, materiale per rendere tridimensionale ogni singolo personaggio, per dare alle storie un afflato epico di rara intensità, per imporre allo spettatore di “pensare a ciò che sta guardando”. La prima è più importante questione che, praticamente tutti i capitani hanno dovuto affrontare è: si deve applicare la PRIMA DIRETTIVA nel caso in cui un intero pianeta e un’intera razza rischiano di scomparire? Le risposte sono state disparate. Sia nella TOS che in TNG Picard e Kirk hanno aggirato la prima direttiva, l’hanno piegata e, nella sostanza, non l’hanno sempre rispettata. Citare tutti gli episodi in cui questo avviene è praticamente impossibile oltreché inutile (anche perché se state leggendo questo articolo siete dei fan della serie e quindi più che informati sui fatti, ndr.), quello che invece vale la pena dire è che questo concetto nasce nella mente di Gene Roddenberry negli anni Sessanta, in piena guerra del Vietnam, continua in TNG durante la guerra del Golfo, e perdura fino ai primi anni Duemila durante l’attacco preventivo contro l’Iraq. Questo non vi dice nulla? Tutte guerre in cui la PRIMA DIRETTIVA è stata bella che violata, ed era stata anche violata quando gli stati Occidentali con gli USA in testa avevano venduto armi a questi paesi (la vendita di armi o di tecnologia a pianeti pre-curvatura o similari rappresenta una violazione della PRIMA DIRETTIVA…Almeno in Star Trek, ndr.). Può essere un caso che Roddenberry si inventi questa PRIMA DIRETTIVA così articolata proprio quando l’opinione pubblica statunitense inizia a protestare per la lunga permanenza in Vietnam? Può essere un caso che nell’ultima serie di Star Trek, Enterprise, si parli di una razza, gli Xindi, che “per non saper né leggere né scrivere” uccidono Sette Milioni di Terrestri in un attacco preventivo (avevano saputo che i terrestri avrebbero a loro volta distrutto il loro pianeta, ndr.) che tanto assomiglia a quello lanciato dagli americani in Iraq? La PRIMA DIRETTIVA però non si ferma a questioni come “la salvezza di un pianeta” o a conflitti interplanetari. Va oltre, riguarda anche usi e costumi dei popoli. In Diritto di Essere (TNG stagione 5, ndr.) Riker (il secondo ufficiale di Picard, ndr.) si innamora di una donna androgina di una società che non ha distinzione di sessi in quanto procrea tramite fecondazione artificiale. Il quesito che si pone è semplice. E’ giusto minare le basi di una società (belle o brutte che siano, almeno così come ci appaiono a noi, ndr.)? Secondo Picard fare questo viola la prima direttiva, sconsiglia quindi il suo primo ufficiale a proseguire la relazione o, ciò che è peggio, a innescare una rivolta sociale in un pianeta straniero. E’ una posizione giusta? Quale corrispettivo ha nella nostra società dove si organizzano marce contro il velo delle donne mussulmane o si penalizzano genti che hanno alla base del loro modo di vivere il nomadismo, come i ROM? Il messaggio che Gene Roddenberry, e i continuatori della sua opera vogliono dare è semplice: non c’è un modo giusto di vivere ed uno sbagliato; esiste il nostro modo di vivere e quello degli altri. Il modo di vivere degli altri può anche essere brutale, incivile e discriminante; ma, ogni società deve trovare da sola il bandolo per uscire dalle proprie storture in un atto di maturazione lenta e inesorabile che deve essere compiuta con i propri mezzi e le proprie convinzioni.

ontinuando a parlare di Etica e rapporti umani e sociali non possiamo dimenticare Giustizia Sommaria uno degli episodi più belli e significativi di Star Trek TNG. In sintesi si parla di una persecuzione legale nei confronti di un individuo sol perché questi ha un avo romulano. La persecuzione, la giustizia che rifiuta se stessa dimenticando tutte le principali garanzie dell’imputato, l’intolleranza, vengono qui tutte al pettine della profonda morale del capitano Picard, il quale pronuncia uno dei più importanti monologhi della saga: “al primo anello la catena è già formata…”, quando per la prima volta ci si dimentica delle più sacre delle leggi: le garanzie costituzionali (la libertà dell’individuo è inviolabile, ogni individuo ha diritto ad un processo giusto, ogni individuo ha il diritto di essere giudicato dai suoi pari, e così via ndr.); già da questa prima volta si forma una catena che non si può più spezzare. La Federazione Unita dei Pianeti non usa fare, sottolinea Picard, giustizia sommaria dei suoi cittadini. Picard ha un così profondo senso della morale e dell’etica che sembra un personaggio antico e moderno ad un tempo. Lui, militare di carriera, dirà in un episodio (La Figlia di Data, ndr.) “esistono momenti nella vita di un uomo in cui una persona dotata di buona coscienza non può semplicemente obbedire agli ordini”; il che significa, che là dove le istituzioni non arrivano a far rispettare la morale e l’etica, il singolo individuo può ergersi a difensore dei principi più sacri della civile convivenza. Un altro episodio giudiziario chiarisce ancor di più la questione. Si tratta de Il Processo tratto dalla seconda stagione di DS9. Qui, il capo O’Brian viene sottoposto ad un processo cardassiano; proprio per dare allo spettatore l’intensa sensazione di quanto tale popolo sia diverso da quello federale, gli sceneggiatori mettano a punto l’idea che a Cardassia la sentenza venga emessa e resa pubblica prima del processo, e il processo serve solo a far vedere quante e quali prove schiaccianti sono state raccolte contro l’imputato (rivestendo, quindi, una valenza puramente propagandistica, ndr.), in una parola il processo non può cambiare la sentenza. Il giudizio e il pregiudizio, la necessità che in una società civile le garanzie giuridiche siano difese a spada tratta (Picard, ndr.) e che non ci sia un pregiudizio che infici la sentenza (come nell’episodio di DS9, ndr.).

Seguitando su questo argomento e ampliandolo ad un contesto molto più ampio che affronta la legalità della guerra e dei conflitti tra le nazioni, nostro punto di riferimento non può che diventare DS9, dove due episodi saltano subito all’occhio. Inter Arma Enim Silent Leges (settima stagione, ndr.), vale a dire “In guerra le leggi tacciono” (Cicerone, ndr.); e La Coscienza di Un Ufficiale (sesta stagione, ndr.). I due episodi sono accumunati da una domanda: cosa si può fare per vincere una guerra? Se “il bene” si accorge di star perdendo la sua eterna lotta con “il male”, può agire ignorando le leggi e la morale pur di vincere? Cicerone, duemila anni or sono, aveva già dato la risposta: è inutile cercare la legge in tempo di guerra, essa tace, è muta, inerte ed inefficiente. E allora? Allora bisogna fare un patto con il diavolo, scendere a compromessi. Sisko (in La Coscienza di un Ufficiale, ndr.) abbandona ciò che ritiene la sua convinzione più sacra pur di fare entrare in guerra i Romulani contro il Dominio, diventando complice inconsapevole di un delitto. C’è qualche rimorso in lui? Ovviamente sì, ma lui sa che vivere tutta la vita con la coscienza macchiata da un terribile delitto può essere il prezzo giusto da pagare pur di liberare il Quadrante Alpha dalla terribile minaccia del Dominio. Durante la guerra tutto è permesso, non vi sono vie facili per le coscienze elevate, e il sangue lorda tutte le mani, anche di chi non combatte. Ecco perché, le guerre non andrebbero fatte.

Ma, durante le guerre, oltre che le leggi, possono venir meno anche le libertà civili. Di grande attualità è il tema che gli autori di DS9 affrontano nell’episodio Il Paradiso Perduto (quarta stagione, ndr.). La Terra minacciata dal dominio viene portata sull’orlo della legge marziale da un gruppo di fanatici militaristi della flotta stellare. Sul momento Sisko sembra condividere l’inasprimento delle misure di sicurezza che servono a proteggere il nostro pianeta dai Cambianti; poi, però dopo un contrasto con il padre fa tesoro delle parole del suo genitore: “Se i fondatori vogliono distruggere il nostro paradiso, la Terra, devono venire qui a sporcarsi le mani, io non lo farò per loro”. Un messaggio chiaro, leggi restrittive delle libertà personali fanno solo il gioco di coloro che vogliono terrorizzarci (non riconoscete lo schema: terrorismo – leggi sulla sicurezza - limitazione delle libertà personali? Ndr.). Alla fine dell’episodio, infatti, un cambiante sotto le mentite spoglie di O’Brian chiede a Sisko: “Quanti Cambianti pensa che ci siano sulla Terra in questo momento? Quattro, solo quattro…”, e il terrore per solo quattro cambianti ha portato il pianeta alle soglie della legge marziale. Nulla, quindi, deve convincerci a rinunciare a ciò che abbiamo faticosamente conquistato: la libertà personale e quella civile.

Stampa | Mappa del sito
© Claudio Chillemi